Al termine delle litanie dei Santi, esprimiamo la nostra fede con una petitio sulla morte che ci fa dire: “A subitanea morte, libera nos Domine” “da una morte improvvisa e senza preparazione, salvaci o Signore”.
Essere preso all’improvviso, senza essere preparato, è un danno supremo da cui ogni uomo vorrebbe essere liberato. Ogni uomo desidererebbe, infatti, essere avvisato, essere pronto per questo evento ultimo della sua vita. Vorrebbe che quando e come morire fosse una propria decisione. Ma non accade così, ed è giusto! Se dovessimo chiedere invece a un non credente di formulare la sua litania, la petizione si invertirebbe, senza dubbio in: dammi una morte improvvisa e senza preparazione. È desiderata una morte improvvisa, per non lasciar tempo ad una riflessione o una sofferenza prolungata, difficile da accettare e che potrebbe anche aiutare a cambiare pensiero, a convertirsi.
La tappa della morte ci insegna che viviamo in una società dove l’attitudine verso la morte sembra un tabù, una cosa nascosta, indicibile, direi anche da molti indesiderabile. La malattia e la morte sono divenute puramente problemi tecnologici, gestiti da persone o istituti tecnici specializzati e sappiamo quanto si è sviluppata in questo senso la medicina e quanto alcune correnti politiche spingono per scelte più radicali. La morte nella nostra società cessa di essere un tema anche spirituale e rimane spesso solo problema fisico da affrontare per evitare l’incremento della sofferenza.
Quanto invece dovrebbe suscitare in noi una grande consapevolezza che evitare o meno di affrontare il tema della fine della vita deriva dal rapporto che ogni uomo ha con se stesso. La memoria mortis non ha niente a che vedere con la tristezza, la paura, l’annientamento ma, come diceva Mozart, deve essere la chiave attraverso cui leggere ogni giorno il senso della nostra vita. La vita eterna non si raggiunge automaticamente, ma passa necessariamente attraverso il giudizio di Dio, un giudizio certo misericordioso che tuttavia non ci esenta dal compiere le nostre scelte di vita quotidiana con serietà e responsabilità.
Don Guanella nell’operetta “Sulla tomba dei morti” del 1883 scrive che “la vita dell’uomo in terra è un’ora che Dio buono concede perché ci si disponga alla eternità. No, no, non avete in questo mondo città di dimora. Siete pellegrini, dovete affettarvi come pellegrini. Conservatevi sgravati dal peso di peccato, vestite indumenti di virtù, sceglietevi guide celesti, un angelo tutelare, e poi affrettate il passo”.
Noi guanelliani, proprio per fedeltà al nostro carisma dobbiamo vivere, e far vivere a chi sta con noi, questo atteggiamento di consapevolezza della importanza della morte e l’esigenza di prepararsi soprattutto spiritualmente a questa tappa della nostra esistenza. E’ nostro dovere, per fedeltà alla volontà del Fondatore, promuovere questa sensibilità nella gente che accostiamo e interessarci per essere presenti là dove l’uomo sofferente sta giocando l’estrema partita della sua esistenza. Spesso è il momento della solitudine più nera, dove accanto al morente ci sono solo figure interessate per lavoro alla sua salute, ma normalmente senza alcun interesse di affetto e di partecipazione al suo dolore. Papa Benedetto ha infuso speranza in questi fratelli e sorelle nel dolore quando nella notte di Pasqua di qualche anno fa nella Omelia, facendo parlare il Risorto, trasmise quella felice notizia pasquale: “Sono risorto e ora sono sempre con te. La mia mano ti sorregge. Ovunque tu possa cadere, cadrai nelle mie mani. Sono presente perfino alla porta della morte, là dove nessuno può più accompagnarti e dove tu non puoi portare niente, là ti aspetto io e trasformo per te le tenebre in luce” (Benedetto XVI, Veglia pasquale 2007).
Una volta i giornalisti hanno chiesto a Madre Teresa quale fosse stato il giorno più felice della sua vita? Tutti aspettavano che lei dicesse: il giorno della mia prima professione o il primo giorno in cui uscii dalla mia patria”. Ma lei rispose dicendo: “oggi”, proprio oggi è il giorno più bello della mia vita. Ogni giorno lo vivo con grande cautela e con gioia come se non venisse più nessun domani. Vale dunque la pena vivere la vita con i suoi dolori, le fatiche e le gioie di ogni giorno come se non ci dovesse essere più un domani. Vale cogliere le opportunità che il Signore semina ogni giorno sul percorso della nostra vita, gustarli in pienezza ma come propedeutici a quell’ultimo giorno, a quella tappa della vita così significativa e tremenda allo stesso tempo.
Il Fondatore, parlando del fine primario del nostro Istituto invitava noi religiosi e religiose guanelliani al combattimento quotidiano verso la santità finale; scriveva: “La dottrina dei Consigli evangelici che è il compendio delle virtù esercitate da Gesù Cristo stesso, è divenuta la famosa dottrina dei veri savi e sapienti cristiani e la pratica di questa dottrina, pratica energica sino all’eroismo, pratica perseverante sino alla fine di vita, perfeziona i santi nella Chiesa di Gesù Cristo e li glorifica nel paradiso beato” (DLG, Del fine primario dell’Istituto)
Vale la pena anche lasciarsi ispirare nel vivere così orientati verso la morte da chi ci ha preceduto in questo stesso compito ed è riuscito a viverlo in pienezza. La loro morte ci deve dunque ispirare a vivere l’oggi proiettati all’attesa dell’ultimo giorno, a giocarci completamente nelle esigenze del Vangelo oggi per raccogliere domani, a metterci al servizio degli altri, a riconciliarci con i fratelli e con Dio, per vincere l’odio e raccogliere domani l’amore.
Oggi noi Servi della Carità facciamo memoria del 25° anniversario della morte di don Pietro Rech: prete semplice, gioioso che ha saputo fare della sua vita sacerdotale una dedizione appassionata alla musica e al servizio dell’altare. Semplici compiti: suonare l’organo nelle celebrazioni nella Basilica di San Giuseppe al Trionfale e seguire i ministranti nel servizio all’altare. Ha santificato i suoi ultimi anni di vita e si è preparato all’incontro con il Signore attraverso questo semplice ministero. Quanta è vera la frase di Don Guanella quando diceva: “Non è importante il tanto che si fa, ma è l’amore che si mette nel farlo”.
Un nostro giovane confratello chiamato alla Vita in modo tragico due anni fa, ci testimoniava la sua fiducia nel soccorso divino: “Il giorno della morte di mia madre una donna del mio paese mi ha presentato le condoglianze evidenziando il mio nuovo stato di orfano, ed io mi sentii in quel momento di rispondergli: ‘non sono senza la mamma, non sono orfano. So che la Madonna è la mia mamma e che a lei devo tutto, perché ha camminato con me fino ad oggi. Senza il suo supporto sarei morto”.
Che gli esempi dei confratelli, delle consorelle, dei Cooperatori e dei ragazzi e ragazze delle nostre Case che ci hanno preceduti nel Regno eterno, ci spronino ogni giorno, nel camminare verso il Regno, a fare della nostra vita una sintesi vivente e meravigliosa del dire e del fare del Signore Gesù. Amen.