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Don Aurelio Bacciarini divenne sacerdote per la diocesi di Lugano; arrivò a don Guanella dal ministero parrocchiale e di direttore spirituale nel seminario. La sua formazione avvenne nei seminari milanesi di Seveso‑S. Pietro, Monza e Milano, corso di Porta Venezia, godendo d'una delle borse di studio istituite da S. Carlo per chierici dei Cantoni svizzeri. Contemporaneamente ai corsi di teologia, seguì le lezioni della Pontificia Facoltà Teologica, così che ne uscì dottore in teologia. Era entrato a Seveso che aveva quindici anni. Impedito dalla povertà di mezzi per entrare in seminario, terminate le scuole del paese, aveva aggiunto lo studio privato presso un giovane parroco, per cui poté essere ammesso subito al terzo corso ginnasiale.

Nella nativa Valle Leventina, la famiglia numerosa — Aurelio era il settimo figlio — viveva in una decorosa povertà, che divenne molto dura, fino a confinare con la miseria, quando, a 35 anni, il padre moriva di apoplessia: la figlia maggiore non aveva che tredici anni, Aurelio ne aveva tre. Uno dopo l'altro, giunti alla maggiore età, emigrarono tutti in America, eccetto la sorella Rosa. Aurelio, che viveva il dramma delle difficoltà domestiche, sugli otto anni, pregò la mamma di lasciarlo andare pastorello sull'alpe, a fare la stagione da maggio a ottobre: e lo fece per sei anni. Era un ragazzo d'eccezione: come eccelleva nella scuola, così lo era nella chiesa, chierichetto assiduo, dirigente del gruppo: pietà e bontà d'animo andavano di pari passo. Non fu difficile al prevosto scoprirvi i segni della vocazione. Alla sorella che scherzosamente, gli chiedeva: «Che farai da grande?», aveva risposto: «Voglio farmi prete». E subito: «E voglio farmi santo!». 

Sacerdote, il suo Vescovo l'aveva inviato parroco ad Arzo, un paesello del Mendrisiotto. Non incontrò buone accoglienze fra la popolazione, che era irritata per il trasferimento del predecessore, contro la loro volontà, ma fu tanta la stima e l'affetto che si guadagnò con l'aperto spirito di pietà, con lo zelo, con la dedizione totale, che in breve la situazione si capovolse. Impresse alla parrocchia un ritmo di attività spirituale, riorganizzando le associazioni esistenti, fondandone di nuove, sempre dolce, ma pur forte nel combattere il male e nel difendere i diritti di Dio e delle anime. Portò anche volentieri, e bene accetto, la sua parola e il suo contributo apostolico alle vicine parrocchie. Dopo sei anni, il suo Vescovo lo chiamò alla formazione spirituale dei giovani seminaristi, direttore spirituale al seminario minore di Pollegio. Ci stette tre anni, esplicando con zelo e tanta amabilità il suo ufficio. Coltivava però da lungo tempo l'aspirazione ad una vita consacrata e di maggior perfezione. Meditando su quale indirizzare la sua scelta, si fermò a don Guanella e alla sua Congregazione, perché di recente fondazione e quindi più ricca di fervore, più umile e totalmente dedicata al servizio dei poveri. Entrato in casa, ebbe affidata la cura degli aspiranti e dei novizi, poi la formazione spirituale di tutti i confratelli. Fu consigliere e vicario generale. Ci stava bene con don Guanella, bene coi poveri, ma lo tormentava il desiderio d'una vita di ancor maggiore austerità e contemplazione. Ritenendola volontà di Dio, non senza essersi consultato, partì segretamente da Como e raggiunse l'abbazia trappista delle Tre Fontane a Roma, dove ebbe il nome di fra Martino. Grande la comune costernazione, ma principalmente quella di don Guanella, che, riuscito a scoprire, attraverso la sorella Rosa, il nascondiglio, vi si recò subito, dopo essere stato ai piedi del Papa e fattosi accompagnare dal segretario particolare di lui.

Don Guanella gli fece risuonare all'orecchio poche, ma penetranti parole: il Papa... le anime... la volontà di Dio. In dieci giorni di profonda riflessione, gli penetrarono talmente nell'animo, che, lasciata la trappa, si presentò alla comunità di S. Giuseppe al Trionfale. A confermarlo definitivamente al ritorno s'aggiunse la parola del Papa che, in un'udienza privata, gli disse: «La vostra trappa è là, al Quartiere Trionfale». Non ci pensò più. S'era appena inaugurato il tempio di S. Giuseppe, ora diventava parrocchia. Don Aurelio fu il primo parroco. Trionfale, perché sulla via dei Trionfi, bagnata le mille volte dalle lagrime e dal sangue dei vinti incatenati per la schiavitù, era allora una zona ai margini della città, fatta in gran parte di catapecchie, di fornaci, di canneti e di ortaglie. I quindicimila abitanti erano nell'abbandono materiale e morale. L'azione di don Aurelio, coadiuvato dai confratelli e dalle suore, fu straordinaria. Dirà un giorno S. Pio X a don Guanella: «Ho un lamento da farvi: quei vostri preti di S. Giuseppe lavorano troppo». Quando il 13 gennaio 1915, il terremoto sconvolse la Marsica e don Guanella corse a portare i primi urgenti soccorsi, don Aurelio gli fu al fianco, per caricarsi di piccoli orfani e di anziani da portare alle case della Provvidenza. Quando poi, il 24 ottobre dello stesso 1915, morì don Guanella, toccò a don Aurelio, che era vicario, consolare i figli dolenti e prendere in mano la guida dell'Opera: d'autorità, la S. Sede lo nominò successore del defunto Fondatore, carica che dovrà disimpegnare anche da Vescovo fino al 1924, perché, nel gennaio del 1917, don Aurelio fu nominato vescovo di Lugano. Lo chiamò Benedetto XV, che gli comunicò la nomina; non ascoltò preghiere e proteste d'indegnità, gli regalò l'anello e la croce pettorale. «Volontà del Papa, volontà di Dio», commentava fiducioso don Aurelio. La consacrazione avvenne subito, il 21 dello stesso mese, e l'ingresso a Lugano il 14 febbraio. Lo precedette una rapida visita alle principali case guanelliane, un saluto, un'assicurazione che sarebbe stato sempre con loro, fratello e Servo della Carità.

Sarebbe troppo lungo seguirlo Vescovo a Lugano, dove esplicò un ministero eccezionale. Basterà accennare alle visite pastorali fino ai luoghi più dissiti e impervi; alla parola orale (fino a diciassette prediche in un giorno!), e scritta in meravigliose Lettere Pastorali e diffusa con la fondazione d'un quotidiano cattolico; ai Congressi eucaristici, mariani, e sociali; ai ripetuti, organizzati pellegrinaggi diocesani ai santuari della cristianità; alle opere sociali fatte sorgere per le disparate categorie di bisognosi, al seminario estivo per i chierici. E poi? Dono supremo, per la salvezza del suo popolo, si offrì vittima. E Dio l'accettò. Furono quindici anni di sofferenze fisiche, di ricoveri in ospedali, di interventi chirurgici, che gli farà dire, celiando: «Io sono il Vescovo con un orecchio solo, un occhio solo, un polmone solo, una mano sola, ecc.». E, ancora, l'oscura notte dello spirito, il cui spasimo interiore, a suo dire, «supera ogni dolore fisico». Pio XI lo definirà: «Il Giobbe dell'Episcopato», ma rifiuterà d'accoglierne la rinuncia alla diocesi, come l'aveva rifiutata l'antecessore Benedetto XV. L'ultimo atto, del quale firmò la pergamena sul letto di morte, fu la consacrazione del suo Ticino al S. Cuore di Gesù, nel 50o anniversario della creazione della diocesi di Lugano. Nell'ultima settimana di vita terrena, ritrovò la serenità e la gioia d'andare incontro al suo Signore. E il grande incontro — non fu sicuramente a caso — avvenne alla vigilia della festa del S. Cuore.

I fedeli della sua diocesi ne custodiscono con venerazione le spoglie nel magnifico Santuario del S. Cuore a Lugano, da lui fatto sorgere, e con fiducia attendono, assieme ai suoi confratelli, di poterlo invocare santo sugli altari.