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Egli fu religioso e sacerdote d’intensa preghiera, di profonda vita interiore che traspariva dal contegno abitualmente raccolto e riservato. Possedeva un animo retto nelle intenzioni e nelle opere, per questo, anche quando si divergeva dalle sue convinzioni, era necessario ammirarne e rispettarne la fedeltà alla verità cui teneva in modo assoluto.

La laboriosità fu una delle virtù eccelse della sua vita dagli anni della giovinezza alla tarda età. Visse col massimo dell’impegno personale tutte le responsabilità che gli furono affidate dai superiori: come quella di superiore locale in numerose case, maestro dei novizi, guida delle comunità dell’America Latina e, alla soglia del tramonto, postulatore delle cause di beatificazione dell’allora Venerabile Suor Chiara Bosatta e di Mons. Aurelio Bacciarini.

Per riassumere, in brevi cenni, i due tratti essenziali che caratterizzarono la sua vita di guanelliano, è ovvio rimarcare:

- la pratica dell’ascesi robusta che don Carlo aveva stabilito come dote essenziale della sua vita di religioso nello spirito di don Guanella che al pregare univa il patire;

- il trasporto filiale agli insegnamenti del Fondatore e alla Congregazione, che traspariva nella memoria viva della nostra storia, che cercò di raccontare in molti modi, e nella custodia della nostra genuina tradizione.

Nell’agosto del 1920, l’allora parroco di Mombello, grosso borgo sulla riva lombarda del Lago Maggiore, presentava al superiore del seminario di Fara Novarese Carlo De Ambroggi, non ancora tredicenne. Scriveva: «il giovinetto mio parrocchiano De Ambroggi Carlo che viene costì è ottimo sotto ogni rapporto». In particolare attestava di lui «la bontà, la pietà e l’intelligenza» e affermava d’aver riscontrato in lui «i migliori segni di vocazione ecclesiastica» e si diceva sicuro «di una splendida riuscita».

 A 68 anni di distanza, si deve asserire che quelle previsioni hanno avuto il loro adempimento: il buon seme ha dato i suoi frutti. Non senza un doloroso e prolungato lavoro d’ascesi, indispensabile per accogliere gli inviti misteriosi della grazia divina e per raggiungere una fede pienamente matura. La via migliore che S. Paolo indica al cristiano e che don Guanella ha percorso fino all’eroismo è la carità. Quanti ostacoli essa deve superare per potersi radicare in noi e trasformare la vita; spezzare le barriere dell’egoismo e portare la persona al pieno dono di sé a Dio e al prossimo. Don Carlo ha impregnato il suo sacerdozio dell’ascesi pura dell’amore nel modo più genuino. Egli scandagliava quotidianamente se stesso alla ricerca di quanto lo teneva lontano dal suo Signore, ben conoscendo la propria fragilità. Amava purificare i pensieri e i palpiti più reconditi del cuore per allontanare le banalità del vissuto che il male celava nel dono non sempre integro dell’agire e donare. Con energia contrastava le suggestioni del male; esigente e austero con se stesso prima che con gli altri, deciso ad evitare ogni compromesso, vigile nel conservare lo spirito di donazione quotidiana per i poveri, i veri signori della sua vita.

C’è un secondo tratto che ha qualificato il proprium di don Carlo: l’amore al Fondatore e alla Congregazione. Lo assorbì negli anni del seminario di Fara Novarese, sotto la guida di don Leonardo Mazzucchi, che lo conquistò a don Guanella e fu per lui modello d’attaccamento al Fondatore e di dedizione alla Congregazione. Conosceva di don Guanella la vita e le opere; ne citava a memoria i brani più indicativi; si sforzava di viverne lo spirito e di trasmetterne integro il messaggio, servendosi della parola e degli scritti. Con trepidazione ne seguì l’iter della causa di beatificazione e proprio nel sessennio del suo superiorato (1958-64) n’accolse con gioia l’annunzio della glorificazione (1964).

In una lettera del 13 maggio 1962, informava i confratelli che la Chiesa ne aveva riconosciuto l’eroicità delle virtù. Commentava: «Siamo figli di Santi! Questo è il titolo più onorifico e al tempo stesso più impegnativo per noi. Se siamo figli di santi, la nobiltà ci obbliga ad emularne gli esempi, ad onorarne la memoria con opere egregie, degne della nostra origine».

Altrove ricordava: «Carissimi confratelli, la gloria più vera, più auspicata dallo stesso Padre Fondatore, più feconda di bene e più duratura dev’essere costituita dalla santità della vita, dalla fedeltà al suo programma, dalla perennità del suo spirito in noi suoi Servi della Carità».

Don Carlo volle sempre mantenersi fedele alla sua vocazione guanelliana, in una sincera ricerca della santità, come da superiore inculcava ai confratelli: fu a servizio viscerale della Congregazione, non solo in Italia e in Spagna, ma per 12 anni nell’America Latina. Eletto Superiore generale, si prefisse soprattutto d’essere guida spirituale della Congregazione. Non trascurò l’espansione dell’Opera, che s’insediò negli Stati Uniti d’America. Voleva che la Congregazione vivesse «un rinnovamento o meglio il perfezionamento» della vita spirituale e della formazione religiosa (Charitas 121, 2). I titoli delle lettere da lui pubblicate sul Charitas ne rivelano l’evidente preoccupazione primaria:

  • povertà di fatti e non di parole, carità fraterna nelle comunità tra i religiosi e all’esterno con i poveri;
  • le vocazioni futuro dell’Opera;
  • la castità sollecitudine di combattimento contro il male;
  • doveri verso la Congregazione; il testamento del Padre; 
  • oboedientia et pax; patire; figli di Santi; la regola; la Divina Provvidenza.

Questo è stato l’impegno più decisivo del suo governo. Don Carlo amò la Congregazione con lo stesso slancio con cui amò don Guanella: per lui era la creatura più amata, via sicura alla santità e testimonianza genuina del Vangelo. L’amò anche quando, con rammarico, constatava che l’impegno alla santità da parte dei confratelli era neghittoso e senza entusiasmo rimarcato da scarsità di corrispondenza, inadeguatezze nel vivere l’ansia apostolica e caritativa del Fondatore. Amare la Congregazione significò per lui: onorarla, conservarne immutato lo spirito, mantenerne inalterato lo scopo, promuoverne lo sviluppo (Charitas 130). Prossimo alla morte, don Carlo per tre volte alzò le braccia, protendendole verso l’alto. Gesto d’offerta?... Risposta ad una chiamata?... Incontro con una persona amica?... Nella serenità di don Carlo di fronte alla morte, trionfa la certezza che per lui in quel momento s’è compiuta la parola di Gesù: «Venite, benedetti... ricevete il regno...». «Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te!».