DON GIOVANNI DI TULLIO nasce a Montagano, Campobasso, da papà Alessandro e da mamma Maria Concetta Galuppo, il 27 febbraio del 1937. Di loro don Giovanni scriverà in occasione del suo 40° di sacerdozio il 23 giugno 2003: “Ai miei genitori il grazie per la vita e per l’affetto generoso intriso di tanti sacrifici; l’amore eterno è la loro migliore ricompensa”. 

Riceve il dono del Battesimo il 4 marzo dello stesso anno e quello della Cresima da Mons. Alberto Carinci il 15 luglio del 1950, sempre a Montagano. Siamo nel mezzo delle grandi celebrazioni dell’Anno Santo con risonanze in ogni parte del mondo e nel cuore del piccolo Giovanni già si andavano annunziando progetti che a lungo termine lo avrebbero portato a diventare “alter christus”, vero difensore della ortodossia e qualificato soldato innamorato del suo “generale”. Scriverà infatti molto più tardi: “Confido e mi affido alla volontà di Dio che è sempre il vero bene per me nel presente e nel futuro”(23/06/2003).

Il primo contatto con l’Opera don Guanella, Giovanni lo ha il 20 agosto nel 1948, all’età di 11 anni quando si trasferisce da Montagano nella Casa San Giuseppe di Roma-Ricovero e frequenta le classi delle medie presso le nostre scuole al Trionfale. Nei primi giorni di settembre del 1952 è chiamato a compiere un altro passo da gigante nella geografia italiana salendo da Roma fino ad Anzano del Parco (Co) per le scuole ginnasiali. In questa comunità vive l’esperienza del postulato che ormai lo orienta alla vita religiosa guanelliana.

Segue il biennio di noviziato nel seminario di Barza d’Ispra (VA) dove il 12 settembre del 1955 emette pubblicamente la professione religiosa pronunciando i voti semplici di castità, povertà ed obbedienza.

Completa la tappa della prima formazione con il corso teologico a Chiavenna dal 1959 al 1963.

I giudizi di coloro che hanno curato la sua formazione mettono sempre in evidenza la sua pietà, l’applicazione allo studio, la disponibilità volontaria nei lavori manuali, specie per quelli che richiedevano maggior fatica,  l’impegno in crescendo, anno dopo anno, nella correzione del suo carattere forte, autoritario.

Al termine del Tirocinio tra i ragazzi del nostro Centro di Gatteo, nel 1958, il formatore, don Nicola Cicchino, che lo ha seguito e conosciuto in quell’anno può scrivere una relazione che lascia intravedere quell’uomo nuovo che sta crescendo sempre più dentro il chierico Giovanni Di Tullio: “Di lui tutto fa bene sperare. Anche i confratelli ne sono contenti. Assiduo ai SS.Sacramenti e nelle pratiche di pietà; pronto nell’osservanza delle regole. Con i Superiori e con i ragazzi che assiste è mite e delicato. La Congregazione, se corrisponde adeguatamente alla grazia di Dio, avrà un sacerdote che darà belle soddisfazioni.”.     

Il 23 giugno del 1963 porta a termine il suo itinerario di preparazione all’Ordinazione sacerdotale e diventa prete a Como per l’imposizione delle mani e la preghiera consacratoria di Mons. Felice Bonomini, vescovo ordinario.

Tu es sacerdos in aeternum, secundum ordinem Melchisedek!

I primi sette anni di sacerdozio sono per don Giovanni occasione per un tuffo concreto nella pedagogia guanelliana. E’ educatore prima dei ragazzi del nostro Collegio di Como, Casa Divina Provvidenza e poi nel Centro educativo di Napoli Miano dove il contatto con le povertà e i problemi di ogni genere della gente del quartiere lo plasmano e preparano ad un rapporto schietto, non troppo edulcorato, ma ricco di misericordia e comprensione, con il popolo dei quartieri della città di Roma dove sarà inviato come pastore: Trionfale e Valle Aurelia.

Dal 1970 fino alla sua morte don Giovanni vive la sua missione di sacerdote-religioso nella città eterna di Roma. Trentasette anni vissuti nell’ambito pastorale.

Giunge, infatti, a Roma nel dicembre del 1970, come assistente dell’Oratorio di San Giuseppe al Trionfale. Vi rimane 12 anni promuovendo una mole incalcolabile di attività per i suoi giovani. In occasione dei suoi funerali ci sono giunte diverse testimonianze del popolo di Dio che lo ha incontrato e ne ha gustato i doni di uomo e di sacerdote. Di quegli anni di animazione tra i giovani, il signor Giorgio Sportello così lo ricorda: “Oltre a insegnare musica, don Giovanni gestiva anche l’Oratorio. Ricordo quando aggiustava i biliardini guasti e, soprattutto quando ne faceva la manutenzione. Spesso ci chiamava per aiutarlo e ci dava lezioni di vivere civile e soprattutto, insegnava ai giovani ad essere collaborativi e disponibili con i ragazzi meno fortunati. Chiedendo l’autorizzazione ai miei genitori mi portò a visitare i ragazzi disabili al “Vaccari”. Quell’esperienza forte la ricordo ancora molto bene: vedere tanti ragazzi che vivevano in Istituto, senza il conforto dei genitori, con vari tipi di handicap, sia motorio che psichico, mi fecero riflettere molto sull’importanza di aiutare i più bisognosi. Questa esperienza durò per tutto il periodo delle scuole medie”.  

Il 1 settembre del 1982 su proposta dei Superiori guanelliani, il Vicario del Papa per la città di Roma, Cardinal Poletti, lo nomina parroco della Parrocchia San Giuseppe Benedetto Cottolengo di Valle Aurelia. Un quartiere caro all’Opera don Guanella, perché aveva trovato attenzione e amore già nel cuore del Fondatore. E’ il quartiere dei fornaciari verso i quali don Guanella usa premure pastorali insolite. Anche se recentemente abbiamo affidato la Parrocchia alla Diocesi di Roma si continua però ad offrire nella famosa “Valle d’Inferno” il nostro servizio pastorale festivo e con la presenza dei Cooperatori guanelliani e l’UNITALSI una bella testimonianza del carisma di carità.

Il Cardinal Poletti consacrando la nuova chiesa di Valle Aurelia e volendo descrivere la sua posizione geografica piuttosto interrata in riferimento alla strada e al quartiere, la paragonò al campo di grano nel quale viene gettato il seme buono: non si vede, perché nascosto dalla terra, ma si sa che nel buio della terra è tutto un fervore vitale fino ad esplodere all’esterno in vita nuova prima nel germoglio, poi nello stelo e infine nella spiga alta, visibile e piena di grano buono. 

L’attività del parroco don Giovanni nei ben 19 anni di responsabilità pastorale, si descrive in perfetta sintonia con questa esperienza augurale descritta dal Cardinal Poletti.

Quante testimonianze di gente semplice, comune che in don Giovanni hanno trovato un padre, un amico, una guida, un consolatore, un sostenitore.

Il signor Marcello Parisi lo ricorda così: “La mia vita con la sua si sono incrociate nei momenti per me importanti: prima all’Oratorio di San Giuseppe al Trionfale come sacerdote della mia vita di adolescente; poi nella chiesa di san Giuseppe Benedetto Cottolengo come parroco della mia nuova parrocchia, così Dio me l’ha ripresentato per celebrare il mio matrimonio…In ogni occasione, la presenza di don Giovanni mi ha trasmesso serenità e certezze durevoli. Nonostante gli intervalli tra un incontro e l’altro, mi sembra di averlo avuto vicino ogni giorno come un grande amico di famiglia. Rapporto premuroso il suo: telefonava per ogni anniversario del mio matrimonio, assicurandosi che regnassero gioia e amore nella mia famiglia, ma anche nelle famiglie dei miei parenti, che lui conosceva. Ma la cosa più straordinaria è che chiedeva notizie di tutte le persone con le quali eravamo legati dal ricordo dell’Oratorio. Nonostante fossero passati ormai molti anni ricordava le situazioni personali, i nomi e i cognomi!

L’ultima telefonata di don Giovanni è stata il 9 febbraio 2007, un mese prima della sua morte, per il mio anniversario di matrimonio. Parlando anche della recente morte di mia suocera, mi garantiva che certe persone di spirito, come era lei, sono ancora presenti tra di noi, più dopo la morte, che da vivi. E’ la preghiera che rivolgo al Buon Dio perché don Giovanni continui ad essere presente nella mia vita ora più di prima”.

Una testimonianza anonima descrive anche il suo ministero di sacerdote: “Ho sperimentato l’efficacia della sua predicazione, ma soprattutto del Sacramento della penitenza. Concreto, forte e deciso, non faceva “sconti” per il peccato, colpiva diritto al cuore, ma non ti dava il tempo di rattristarti, perché ti rimandava subito alla grande misericordia del Padre. E io ne uscivo sempre consolata”.

Nel marzo del 2001 la sua salute è minata in maniera compromettente e i Superiori ritengono che per don Giovanni sia venuto il tempo di una  responsabilità pastorale non più di prima linea. E’ trasferito nella Parrocchia di San Giuseppe al Trionfale, come vicario parrocchiale. In questi ultimi sei anni della sua vita, insieme alla sofferenza per la sua salute sempre più in declino, c’è una volontà ferma e risoluta in don Giovanni di consacrare per la promozione del Regno di Dio tutto il tempo che gli rimaneva a disposizione tra visite specialistiche, ricoveri frequenti in ospedale, crisi cardiache. Il suo ministero è sempre fecondo, specie nel confessionale dove la gente lo attende e lo cerca per aprirsi a lui e ricevere quelle indicazioni chiare e concrete di cui si è sempre alla ricerca nella vita spirituale.

Anche di questo periodo abbiamo belle testimonianze che riporto a edificazione ed esortazione per tutti noi suoi confratelli sacerdoti: ”Don Giovanni era il mio confessore. In realtà era molto di più e, a volte, la confessione era l’occasione per parlare un po’ con lui. Quasi fratello e padre, riusciva sempre a trovare le parole giuste per aiutarti, proprio le parole che tu avevi bisogno di sentire in quel momento. Tante volte mi ha dato conforto e speranza, ma, soprattutto, mi ha aiutato a ritrovare la Fede in Dio nei momenti in cui la sentivo vacillare. E sempre, uscendo dal confessionale, insieme alla benedizione, mi portavo dentro il suo incoraggiamento e una fiducia nuova per affrontare con spirito cristiano le difficoltà, le paure e i dubbi della vita quotidiana. Grazie don Giovanni, hai fatto tanto per tanti, ora riposa in pace” (Simonetta Corso).

“Caro don Giovanni, sono una delle tante persone cui hai voluto sempre bene! Anch’io vorrei dire la mia testimonianza…Come ben sai sono venuta da molto lontano e sono parecchi anni che lavoro in questa chiesa insieme a mio marito. Ti voglio ringraziare per tutto l’incoraggiamento, i consigli e la forza di andare avanti che sempre ci davi! Quanto ci mancherà quel saluto affettuoso ogni mattina e quel sorriso e la sua mano appoggiata sulla nostra spalla che ci trasmetteva serenità, forza per svolgere il nostro lavoro quotidiano! La tua persona, la tua anima lasciano una grande luce. Il tuo cristianesimo vero, autentico, forte, è stato per tutta la nostra famiglia un sostegno unico e insostituibile. Il tuo esempio ci guidi dall’Alto, ci protegga ancora, protegga i nostri figli! Il Signore, che già ti ha accolto nelle sue braccia, ti faccia risplendere come luce del suo volto per sempre!” (anonimo).

Il 13 marzo del 2007 la morte la chiama ad abbandonare la terra per il cielo e don Giovanni era pronto a dire il suo “Eccomi Signore!”.


 

L'eredità spirituale di don Giovanni Di Tullio

Quanto bello è l’augurio formulato sulle spoglie mortali di don Giovanni da questa credente: “Il Signore, che già ti ha accolto nelle sue braccia, ti faccia risplendere come luce del suo volto per sempre”.

Non è forse stato sempre il sogno e l’impegno quotidiano di don Giovanni?

Ce lo ricorda proprio lui a mo’ di testamento spirituale nel giorno del 40° anniversario della sua Ordinazione sacerdotale: “Per quanto mi riguarda oggi più che mai sento il valore e la bellezza di ogni giorno che mi regala la Provvidenza, specie dopo l’esperienza sofferta e critica del febbraio 2000. Quello che conta è quanto ho permesso che il Signore scrivesse nella mia vita, e l’immagine (foto) che sono riuscito a ricomporre di Gesù in me”.

Grazie don Giovanni!

Come confratelli siamo fieri di te, della tua vita, eloquente profezia di carità, del tuo impegno quotidiano come figlio del Beato Fondatore e come servo della Carità.

 

Il cammino di santità di don Giovanni Di Tullio

Due semplici parabole della sua vita:

1. Quel bottone mancante

Ho nel cuore un tuo ricordo, don Giovanni!

Spesso, al sabato, t’incontravo in sacrestia quando, dopo aver assolto a qualche incombenza parrocchiale, t’apprestavi a dare inizio al compito tuo più elevato, quello di confessore. Al sentir di molti tu opravi con dolcezza, profonda semplicità e trasparente schiettezza di modi e parole.Nel momento in cui, tu abitualmente indossavi la “sottana” notavo sempre che ti mancava un bottone nero…

Don Giovanni  -dissi- perché non ti fai attaccare codesto bottone? Forse non lo sai fare da solo?

Son capace… son capace…! Rispondevi pacatamente.

E allora perché non lo fai?

Perché da quel bottone mancante faccio prendere aria al mio cuore malandato!

Ed io ti ho riservato un posticino nel profondo del mio, don Giovanni. Ciao! 

(Un amico).

2. Il suo ultimo sorriso

Il giorno del suo funerale nella basilica di San Giuseppe al Trionfale passò un signore che distribuiva delle immagini di don Giovanni, in particolare alle signore anziane presenti. Avrei desiderato una di quelle immagini ma erano tutte finite. Tra me e me chiesi a don Giovanni di regalarmi un ultimo suo sorriso ed uscii dalla Chiesa. Fuori dalla Chiesa c’era un gruppo di suore; una di esse aveva in mano due immagini di don Giovanni; le chiesi se poteva farmi fotografare con il cellulare l’immagine, ma lei me la donò. Ecco: don Giovanni che mi regalava il suo ultimo sorriso” (Giorgio Sportello).

 

DON ANTONIO RONCHI Ha iniziato l’iter della vita a Cinisello Balsamo, figlio di Mario Piero ed Agnese Berra. Tre giorni dopo, al fonte battesimale di S. Martino della chiesa parrocchiale, gli fu imposto il nome di Antonio, mentre ricevette il sacro crisma, sette anni dopo, dal Card. Ildefonso Schuster il 20 settembre 1937.

La famiglia, modesta ma dignitosa, viveva in una casetta appena fuori dell’abitato tra prati e boschi, luoghi che non gli saranno dissimili da quelli in cui vivrà nella vita di missionario. Con Angelo, fratello minore, trascorreva lieto i giorni, anche se, in uno di essi, dovette tuffarsi in un canale fangoso per liberarlo da circostanza mortale in cui era incappato con una birichinata da ragazzino qual era. Angelo gli vorrà sempre un bene immenso e, durante il ricovero in ospedale, ne riceverà confidenze e volontà estreme.

Nel pieno della giovinezza, verso i sedici anni, pensa seriamente di consacrarsi a Dio. Si consiglia con il parroco; prega, cerca. Conosce l’Opera don Guanella e s’innamora del suo carisma d’attenzione ai poveri e ai sofferenti e bussa alla porta del Seminario S. Gerolamo di Fara Novarese, per iniziare il ginnasio, accompagnato dalle garanzie del parroco:«Offre sicuri segni di percezione religiosa; appartiene a buona e onorata famiglia e, nell’ambito della parrocchia, è di lodevole condotta sotto ogni rapporto».

Trascorre due anni a Fara Novarese e va a terminare il corso di studi umanistici nel nuovo Seminario S. Giuseppe di Anzano del Parco (CO), dove ha modo di prepararsi per il Noviziato come garantisce il superiore della Casa, don Antonio Fontana: «È un giovane di ottima pietà; di carattere sincero, aperto, sottomesso, quantunque un po’ focoso; pieno di buona volontà e di spirito di sacrificio».

Nella Casa don Guanella di Barza d’Ispra, sul Lago Maggiore, all’inizio, ha come padre maestro don Olimpio Giampedraglia, il quale «fortiter et suaviter» lo guida nella via del Signore: «E’ ben intenzionato, d’indole un po’ impulsiva e .puntigliosa» e poi don Armando Budino, sacerdote santo ed ottimo formatore di anime. Gli si affida per essere aiutato a smussare il carattere impulsivo e alquanto inflessibile.

Professa il 12 settembre 1953, seguendo poi la trafila di formazione e di studio propria di quei tempi, per legarsi definitivamente alla Congregazione il 12 settembre 1958.

Per la necessità d’avere educatori provetti nei vari istituti dell’Opera, il Ch. Antonio raggiunge l’Istituto Beato Bernardino T. di Vellai di Feltre, dove trova degli ottimi docenti per il quadriennio della teologia ed incontra don Paolo Cappelloni, con il quale stringerà un’amicizia intessuta di stima e di fiducia, che lo seguirà nel resto del tempo che rimarrà in Italia, prima della missione in America Latina.

E’ alla vigilia del sacerdozio, quando sottomette al superiore la sua volontà definitiva e gli intenti della sua vita: «Dopo matura riflessione e consiglio, dichiaro di sentirmi chiamato al sacerdozio e allo stato religioso con l’unico scopo di santificarmi e di far santi gli altri», rassicurando il Superiore Generale don Armando Budino, suo formatore in Noviziato, d’aver superato gli ostacoli che si portava dietro per il carattere irrequieto e le incertezze di momenti difficili del passato.

E’ sacerdote il 23 maggio 1959 nella cappella dell’Istituto di Vellai di Feltre, consacrato da Mons. Gioacchino Muccin, vescovo di Feltre e Belluno.

Ordinato sacerdote, grato al Signore per quell’immenso dono ricevuto, accetterà ben volentieri  di recarsi in terra di missione. Il 22 agosto 1960, a bordo della nave Giulio Cesare, parte da Genova per il Cile, dove raggiunge la sede dell’Hogar Sagrado Corazón di Rancagua.

L’anno successivo approda a Puerto Cisnes, nella parte Sud del Cile, luogo dal clima rigido. Si trova subito bene, a suo agio come educatore tra i minori e non trascura l’apostolato presso la gente del posto.

P. Antonio vive la freschezza degli entusiasmi apostolici. Per 36 anni dedicherà la sua vita alla popolazione dell’Aysén, mettendo in gioco tutto ciò che natura, grazia e storia gli avevano dato, tra stazioni missionarie, nuove fondazioni, iniziative sociali, centri radio e televisivi.


Vita e opere di Antonio Ronchi in Patagonia

IL MARE, LA PIETRA E LA VERGINE MARIA - Film DVD

C'è una parte del paesaggio del Cile che da migliaia d'anni è plasmata dai venti freddi del sud e da quelli impetuosi dell'occidente. L'hanno chiamata Patagonia, ed è una terra chiusa tra le montagne e il mare, tra le Ande e l'Oceano. Prima che quei venti si portino via tutto, c'è da salvare la memoria di un uomo che viaggiò tra quei paesaggio, quell'uomo si chiamava Padre Antonio Ronchi.

Partì dall'Italia e arrivò in Cile, per conto dell'Opera don Guanella, nell'estate del 1960. Viaggiava a cavallo per settimane intere, spesso da solo, tra la desolazione e la bellezza di quei paesaggi, non mangiava per giorni, dormendo all'addiaccio e se pioveva si riparava sotto le grandi foglie che trovava nella foresta. 

Portava conforto spirituale e aiuti materiali per far fronte ai bisogni dei più poveri, che in Patagonia soffrono anche le durezze di una natura inclemente.

La storia di Padre Antonio Ronchi è riportata in questo bellissimo DVD.

 

L'eredità spirituale di don Antonio Ronchi

Era un uomo dal coraggio adamantino, che rientrava nella speciosità di parte del carattere. Nulla lo poteva fermare. Possedeva una fiducia illimitata in Dio provvido e generoso che lo portava ad osare, a donarsi in modo totale, posto in chiaro che si trattasse di procurare il bene della gente.

E’ stato un camminatore infaticabile sempre vestito da prete con la talare nera, sdrucita, impolverata, ormai consunta dal tempo. Era la sua divisa, il distintivo del «cura rasca», una persona dal fisico robusto con borsetta a tracolla. Lo chiamavano «il Don Camillo di Aysén»: instancabile marciatore, con la gioia nel cuore e la Bibbia nella borsa.

E’ stato, anche un costruttore di cappelle, installatore di stazioni radio numerose per portare la parola di Dio attraverso l’etere nelle case disseminate in spazi immensi e di impianti tv, perfezionati nel tempo sia dal lato della postazione adeguata come da quello del corredo tecnologico, con tecnici all’altezza del compito, preparati con corsi d’addestramento.

Attendeva regolarmente all’evangelizzazione in una cinquantina di missioni dislocate nella regione dell’Aysén e si è impegnato anche a moltiplicare le scuole nei villaggi più popolati, in modo che tutti i ragazzi potessero ricevere almeno l’istruzione elementare del leggere, scrivere e far di conto.

Giustamente, uno dei settori che ha più curato è stato quello della Comunicazione Sociale nelle zone più povere della Regione, allo scopo di procurare «la loro promozione personale e sociale, migliorare la loro condizione di vita ed elevare la loro formazione culturale...».

P. Antonio possedeva un carisma personale che era essenzialmente missionario e che gli impediva di limitare la sua attività. L’intelligenza era straordinariamente viva, il cuore non conosceva confini, la volontà troppo scoppiettante per fermarsi alle «nuges», le piccole attività. Era fatto per cose immense, per abbracciare almeno la Patagonia! Per questo i Superiori dell’Opera don Guanella gli permisero di realizzare il carisma personale a disposizione dei vescovi di Aysén e di Ancúd.

Alla scuola di don Guanella apprese particolarmente due cose: la fiducia nella Provvidenza e l’impegno totale senza misura nel campo della carità.

Ha sempre creduto e confidato nel Signore ricevendone una risposta adeguata. Si dava da fare, smuoveva mari e monti, persone, associazioni, gruppi politici, cattolici o protestanti, pur di portare aiuto alla gente abbandonata, sola, misera, diseredata e misconosciuta.

Ha lavorato fino al logorio, abbracciando nel suo mondo quanto fosse necessario o utile all’azione culturale e alle iniziative della carità: catechesi, pastorale, itinerari di evangelizzazione, preparazione ai sacramenti.

Egli è stato esemplare nel servizio, nello spirito apostolico, nell’intensità della vita spirituale, nella letizia di stile che lo portava a superare ostacoli umani e geografici cantando con gioia piena e sconfinata.   

E’ sepolto in un mausoleo, dalla forma di una prora di nave, posto al centro del cimitero, che da quel momento, per volontà dell’alcade e della comunità di Puerto Aysén, porterà il nome di P. Antonio Ronchi Berra.   

 

Il cammino di santità di don Antonio Ronchi

Il suo apostolato nell'Aysén

L’Aysén che abbraccia un territorio di 110.000 km quadrati - un terzo dell’Italia – è una terra lontana, undicesima regione del Cile, ritagliata tra le Ande a confine con l’Argentina e l’oceano Pacifico, tra la regione di Chiloé al nord e di quella di Magellano al sud.

La sua gente: i pescatori, i boscaioli, le popolazioni dei minuscoli villaggi delle innumerevoli isole dell’Aysén, o delle baracche dei minatori o delle baite di montagna, sparse per le colline quasi sempre innevate della regione patagonica. 

Vi è poi l’azione sociale: qui si aprono spazi senza fine, perché c’è da fare di tutto. In ogni settore è necessario partire sempre da zero per le difficoltà create agli abitanti e agli esploratori o missionari dalle paludi, dai terreni incolti e dall’immense sterminate foreste. Don Antonio capisce che dovrà erigere abitazioni, creare delle scuole e delle cappelle, aprire strade, illuminare i contadini per un miglior sfruttamento dei terreni e le piantagioni. Ci sarà bisogno d’acqua: si devieranno alcuni dei numerosi torrenti, per creare delle confortanti dighe.

Sostenuto dalla volitiva comunità dei confratelli, presenti nel luogo dal 1958, che sentono di operare in totale sintonia con lui, condividendone progetti e percorsi, spesso tortuosi, egli realizza una prima centrale elettrica e dà subito vita ad una «Cooperativa agricola» e una «Pescheria», persuaso che solo così si potranno meglio sfruttare sul mercato i prodotti.

Un terzo settore è dato dal lavoro culturale: l’Opera don Guanella, dai primi tempi della sua presenza in Cile, ha attivato una scuola per bambini, una Scuola Agricola per i giovani per il conseguimento del diploma in Agronomia.

P. Ronchi, senza dimenticare nessuna delle attività in opera, converge la sua attenzione sul mondo della povertà. Ne fa un’attenta lettura, una disanima spietata e si orienta per gli interventi globali: casa e chiesa, laboratorio e catechesi, aiuti d’ogni tipo e lavoro per tutti, ospedali e centri di soccorso.

Ne costruisce uno, accanto alla Chiesa di Puyuhuapi, cercando dottori disposti al volontariato e educatori per «Villa San Luis» in cui sono ospitati i ragazzi abbandonati e in estrema povertà familiare. Otterrà aiuti dal «Catholic Relief Services» del Nord-America, per l’ospedaletto di Puyuhuapi e, nel 1967, «fondi in viveri in gran quantità per costruire un edificio per opere sociali che sarà diretto da Religiose...».

Dagli Stati Uniti, all’Italia, all’Europa. Nel 1968, dalla Casa Divina Provvidenza di Ferentino e dalle Province Lombarde gli pervengono macchinari per la lavorazione del legno in forma industriale: segheria, essiccatoi di legnami, telai e pale meccaniche. Il lavoro cresce a dismisura.

Dopo un breve pausa, dal 1972 fino alla morte sarà definitivamente il  Missionario della Patagonia cilena: prima, alle dipendenze del Vescovo di Aysén, come parroco a Puerto Cisnes dal 1979; e poi, dal 1992, nella diocesi di Ancúd come addetto alla pastorale. Infine a Puerto Montt.

Afferma uno di questi vescovi: «P. Ronchi si sta impegnando nella sua missione con una totalità edificante. Tutto il mondo lo apprezza e gli chiede molto, con ragione. L’unica pena è la sproporzione tra le sue forze, unite a quelle di coloro che lo aiutano, e le necessità pastorali della regione». E, con lettera del 5 dicembre 1981, il Vescovo di Aysén lo elogiava scrivendo: «Il lavoro missionario del P. Antonio si svolge nei luoghi più difficili, per l’isolamento e le molteplici necessità, di questo Vicariato Apostolico di Aysén, luoghi situati tra i Paralleli 44° e 49° della XI Regione Aysén: zona che maggiormente soffre i problemi tipici del sottosviluppo nelle sue varie manifestazioni».

Aggiungeva: «Il compito che abbiamo affidato al Rev. P. Antonio Ronchi consiste, anzitutto, nel dare soluzione ai problemi dell’Evangelizzazione Missionaria, come pure nell’aiutare la soluzione di quelli che sono causati da particolari situazioni umane, sociali, culturali».

Gli anni 1980 costituiscono gli anni più intensi di don Ronchi. Scompaiono le piccole misure. Tutto va alla grande. Allo sguardo non vi è più una comunità, ma un popolo. È il momento di fare appello alle capacità creative. Pur con prudenza, occorre farsi audaci.A voler ricordare l’attività umana d’inculturazione ed elevazione della gente e quella missionaria di apostolato ed evangelizzazione di P. Ronchi non bastano poche righe. Si ricorda quanto gli spetta di giustizia e di carità.

Brevemente: realizzò 50 stazioni missionarie disseminate nell’immensa Patagonia cilena, spingendosi non di rado fino all’estremo Sud, al di là delle Ande, fino ai villaggi della Patagonia Argentina non certo su un comodo treno ma spesso sulla groppa di bizzosi cavalli, con l’incerto della fine del viaggio nell’eventualità d’aver sbagliato strada fino al giorno in cui  poté salire su di robusta quattro ruote, dono degli amici italiani di Cinisello.

 

DON DOMENICO FRANTELLIZZI nasce a Boville Ernica (Frosinone) il 20-9-1937, figlio di Giuseppe e Paolina Frantellizzi, persone essenziali, semplici nei ritmi della vita quotidiana: lavoro, famiglia, chiesa. Il padre muore presto lasciando alla moglie Paolina il compito arduo della formazione dei tre figli. C’era nella stretta parentela uno zio sacerdote di grande esempio, che lascerà orma lunga di bene nel paese.

Fu portato al Fonte battesimale della sua chiesa parrocchiale, dedicata a San Michele Arcangelo, un mese dopo: il 24 ottobre. Boville si sviluppa sul crinale di una collina che domina il piccolo ma suggestivo Santuario della Madonna delle Grazie, tanto caro agli abitanti di tutta la Valle. La famiglia gestisce un piccolo Bar che è punto di riferimento, d’incontro, di comunicazioni di ogni genere per tutti gli abitanti di Boville.Domenico crebbe a norma di bambino lineare: buono, semplice, giocherellone, chierichetto. Normale a scuola. I suoi compagni ancora oggi lo ricordano per la dolcezza di carattere.

Accolse il dono della santa Cresima a 11 anni, conferitogli dal Vescovo diocesano di Veroli, Mons. Emilio Baroncelli il 31 luglio del 1948. Sacramento che veniva ad irrobustire le inclinazioni buone del suo spirito, che ai piedi dell’altare giorno per giorno andavano assumendo una certa piega di gusto: gli cominciò a balenare l’idea di diventare sacerdote. Ne parlò con mamma Paolina. Ne fece confidenza con lo zio. A 12 anni faceva domanda di entrare in seminario. Probabilmente fu suo zio prete ad indirizzarlo verso l’Opera Don Guanella, poichè la conosceva da tempo e nutriva grande stima verso di essa. Indirizzò la sua domanda al seminario guanelliano di Roma, Via Aurelia Antica. Qualche tempo dopo, esattamente il 15 ottobre del ’49, lasciò Boville e scese a Roma, accompagnato dalla mamma e dallo zio. Da quella sera la vita iniziò un altro versante. Fu alloggiato negli angusti locali di “casa vecchia”, mentre già si annunciava la costruzione del nuovo seminario, lì davanti, a distanza di 50 metri. E poi vennero subito le grandiose funzioni dell’Anno Santo del 1950. Durante tutto quell’anno i nostri seminaristi furono scelti per fare i chierichetti nella Basilica di S. Pietro: l’impegno occupava a pieno la mattinata. La scuola si svolgeva nel pomeriggio. Lo studio, per quanto importante, doveva contentarsi dei ritagli di tempo e a sera. Quando cominciarono effettivamente i lavori della costruzione, i ragazzi andarono a dormire al “terzo piano” nel padiglione intitolato a Pio XII, negli ambienti dei “buoni figli”. Il sacrificio però riceveva in compenso la fortuna di una rara esperienza di Chiesa, di preghiera, di carità. Iniziava così, per Domenico, con questo tocco di liturgia e di incontri ecclesiali, il  lungo cammino della formazione religiosa e sacerdotale.

Trascorre un triennio nel seminario minore di Anzano del Parco (CO), come di solito avveniva in quel periodo per i nostri seminaristi del Centro-Sud d’Italia. E così si esprimeva su di lui il suo primo direttore, don Luciano Botta: “Domenico Frantellizzi, anni 17, orfano di padre; indole buona; semplice e servizievole; discreto nello studio e di salute buona. Pietà esemplare. Promette bene!”. Passò a Barza per iniziarvi il noviziato il 12 settembre 1954. Venne avanti deciso. Aveva messo solidi punti fermi, che gradualmente con logica connessione gli aprivano la via. Possedeva, inoltre, l’inestimabile dono dell’umorismo, per cui anche i momenti difficili perdevano di durezza, si sdrammatizzavano, ed egli sapeva trovare i varchi giusti per proseguire con forza. Emise i voti religiosi per la prima volta il 12 settembre del 1956. Poi di anno in anno rinnovò la sua consacrazione a Dio. Intanto veniva inviato nel vivo del lavoro apostolico educativo a Milano, Vellai di Feltre, Anzano del Parco, Ferentino, tra i ragazzi. In questi ambienti di fanciulli e adolescenti rivelò ottime capacità di educatore e vi si trovò a suo agio, in letizia. Lavorava di gusto, amando e facendosi amare. 

Nel settembre del 1960 l’obbedienza lo voleva in seminario minore a Roma, sia per attendere agli studi teologici, che egli frequentò presso l’Università di Propaganda Fide fino alla Licenza; sia per seguire i piccoli aspiranti nei loro primi passi di formazione seminaristica. Al termine del primo anno di teologia fu ammesso a pronunciare i suoi voti “in perpetuo”, ciò che fece durante una sobria celebrazione eucaristica il 24 settembre 1961. Finalmente, concluso il quadriennio teologico di base, nella chiesa di questa Casa di via Aurelia fu consacrato sacerdote, per le mani del Card. Larraona il 14 marzo del 1964.

Era allora in pieno corso il Concilio Vaticano II°: si respirava clima di fervore, in analogia a quanto aveva sperimentato di persona nell’Anno Santo del ’50, agli inizi del suo cammino vocazionale. In più già si delineava l’idea della beatificazione del nostro Fondatore. Gli sguardi puntavano verso le grandi cose della Chiesa, come in attesa verso il futuro. Rimase indelebile questa traccia di Concilio nella sua spiritualità e nel suo lavoro.

Esteriormente, pur diventato sacerdote, sembrò “proseguire”, più che “iniziare” il suo servizio apostolico di educatore: ancora in mezzo ai ragazzi ad attendere alla loro crescita, ai loro problemi. Stesso lavoro. Lo svolge però con altra angolatura, rivelando una sempre più robusta maturità, fatta di intelligenza, di esperienza, di acquisizione anche scientifica circa i compiti che mano mano gli venivano affidati dall’obbedienza. Conclusi gli studi di teologia con il grado accademico della Licenza presso la Pontificia Università di Propaganda Fide, si iscrive alla Facoltà di pedagogia con l’esplicito intento di dare il meglio ai giovani tra i quali vedeva snodarsi il suo sacerdozio.

Infatti: nel 1964 riceveva l’incarico di “prefetto degli studenti” nel medesimo seminario minore di Roma; nel ’70 era chiamato ad assumere il ruolo di superiore ed economo a Ferentino, dove l’istituto allora era ancora pieno di ragazzi; e l’anno successivo passava superiore al Torriani, dove nel ’75 riceveva anche l’ufficio di economo.

A questo punto la sua personalità, in continuo crescendo davanti agli occhi dei confratelli, apparve meritevole di ulteriore fiducia anche in ordine a ruoli di Provincia. Nel luglio del ’77 fu scelto come membro del Consiglio della Provincia Romana, mansione che egli svolse con lodevole impegno, apportando il suo entusiasmo, il senso realistico delle cose, le sue doti di prezioso collaboratore, tanto che nell’83 venne riconfermato nell’incarico in Provincia, come pure nel 1986, quando passava a dedicarsi totalmente al lavoro della Provincia con il duplice incarico di Vicario e di Economo: incarichi che gli vengono poi successivamente rinnovati fino all’ultimo sondaggio di settembre-ottobre del 1993, quando i confratelli, nonostante che don Domenico fosse già minato nella sua salute e tutti ne fossero a conoscenza, vollero chiamarlo ugualmente a proseguire nel dono di sé ai bisogni della Provincia. Ciò che egli accettò e realmente eseguì con scrupolo fino alla fine, la mattina, alle prime luci dell’alba, del 9 marzo 1994.


 

L'eredità spirituale di don Domenico Frantellizzi

1) La serietà nel lavoro

Chi suonava alla porta della Provincia con l’intenzione di disturbare o di perdere tempo  veniva messo subito sul chi va là: “qui si lavora seriamente! Abbiamo bisogno di un clima di serenità”.

Ho dovuto anch’io sentire il fraterno ma deciso richiamo quando entravo in Provincia cantando, o con tono alto salutavo, o suonavo il campanello in maniera prolungata. Però era uomo di accoglienza. Se non era immediatamente impegnato con qualche professionista ti accompagnava a prendere un caffè, era disponibile a due parole confidenziali dalle quali, era esperto in questo, percepiva subito la gravità di alcune situazioni e problematiche. La sua missione di economo la viveva con passione e serietà. Ci si poteva fidare di lui: era capace di portare a termine con professionalità tutte le situazioni che una Provincia vive nel campo economico.  

Nella Pasqua del 1989, ricordando il suo XXV° di sacerdozio scrive agli amici di suo pugno questo biglietto di ringraziamento: ”La vicinanza di tutti voi in questa fausta ricorrenza del mio 25° mi ha commosso e mi ha fatto sentire il sostegno del Signore in maniera particolare. Cercherò, con l’aiuto del Signore, di non deludere le vostre giuste aspettative nell’incarico affidatomi, ma soprattutto nel testimoniare l’amore del Signore con la mia vita sempre più santa”.

2) La passione per le cose belle

VC al n. 24 riporta un canto di Sant’Agostino nel quale si esprime tutta la bellezza del Signore Gesù, in ogni tappa della sua missione di Redentore: “Bello è Dio, Verbo presso Dio…E’ bello in cielo, bello in terra; bello nel seno, bello nelle braccia dei genitori, bello nei miracoli, bello nei supplizi; bello nell’invitare alla vita e bello nel non curarsi della morte; bello nell’abbandonare la vita e bello nel riprenderla; bello nella croce, bello nel sepolcro, bello nel cielo. Ascoltate il cantico con intelligenza, e la debolezza della carne non distolga i vostri occhi dallo splendore della sua bellezza”.

Don Domenico era solito trascorrere il periodo delle sue vacanze in montagna. Amava la natura  Due anni a Santa Caterina Valfulva, l’ultimo anno della sua vita ad Alagna. Passeggiate meravigliose, gustava il bello della natura, il cibo, il pranzo al sacco, la neve , i boschi, i ruscelli. “Era un vero piacere stare insieme a lui” ricorda ancora con  edificazione il suo fedele accompagnatore don Romano Argenta. Nell’ultimo anno era già sofferente, caviglie gonfie, calzini tagliati per poterli mettere, ma voleva camminare, vedere cose nuove, nonostante la fatica. “Non ha mai fatto pesare la sua situazione di malattia”, testimonia ancora don Argenta.

Nel suo studio e nella sua camera una vera e bella collezione di quadri, qualcuno anche di valore, rendevano vivo l’ambiente del suo lavoro quotidiano.

La musica classica, poi, lo appassionava veramente. Ogni sabato, dopo il pranzo, eravamo soliti fare la passeggiata assieme: Via della Pisana, Via San Giovanni Eudes, Via Aurelia Nuova e poi Antica. Arrivati a casa si ritirava per le pulizie personali e poi seduto nella sua poltrona, in camera, ascoltava musica classica seguendola con lo spartito in mano. Era il suo tempo libero dedicato allo spirito. Ne era profondamente convinto: la contemplazione del bello non può che portare a Dio!

3) La capacità di soffrire per amore di Cristo

E’ toccato proprio a me vivergli accanto negli ultimi mesi della sua vita. Era vicario provinciale ed economo. Quattro mesi circa. Eravamo stati insediati nel nostro Ufficio di animatori della Provincia  il giorno della Madonna della Divina Provvidenza, 12 novembre 1993, e don Domenico ci ha lasciati il 9 marzo successivo, dopo quasi un mese di ospedale.

Lo visitavamo ogni giorno durante la sua degenza in Ospedale e ricordo che dopo una giornata passata in Curia generalizia con gli altri Consiglieri provinciali per un incontro con il Consiglio generale, a sera, erano ormai le 19,30, disse a don Marangi mentre ritornavamo in Via Aurelia: passiamo da don Domenico in ospedale. Fu una visita provvidenziale: avevamo preso un po’ di gelato al limone, la sua passione, ad un certo momento un attacco epilettico lo avrebbe sicuramente sottratto prima ancora da noi se in camera con lui non ci fossimo stati noi confratelli.

Quanta sofferenza in quei giorni: grida di dolore lancinante, cure incapaci di debellare la sua malattia, dialisi nel tentativo di sostenerlo, desiderio di un trapianto del rene che però non si presentava immediato per cui la certezza che la morte lo avrebbe raggiunto prima. Mi stringeva la mano con forza per supplicarmi di aiutarlo…ma non potevo fare nulla per lui.

Abbiamo pregato tanto insieme, andando con la memoria a giornate ed esperienze  vissute insieme, per amore del Signore, nella promozione vocazionale, nella formazione degli studenti di Via Aurelia Antica. Erano ricordi che lo gratificavano e consolavano.

Che cosa è stato essenziale per don Domenico? È giusto domandarsi di fronte al concludersi di un’esistenza sacerdotale: che cosa è stato per lui veramente essenziale? La famiglia, lui che ha sperimentato le nostalgie dell’orfano, privato del papà? La soddisfazione del lavoro, tanto più nobile perché segnato da capo a fondo dal valore della solidarietà? La gioia di trovarsi nel più vivo delle battaglie sociali, consapevole di essersi messo dalla parte giusta, dalla parte dei poveri? Certo, tutte cose belle, e grandi, piene di luce. Ma per lui l’essenziale è molto più semplice: per un discepolo che ha incontrato con amore il Maestro, non ci sono dubbi: l’essenziale è stato Lui, il Signore, diventato il tutto della sua vita, l’alfa e l’omega, il principio e la fine. Per cui le esigenze veramente importanti sono state quelle del Cristo e del suo Vangelo. Qui trova respiro e vita il suo essere; a questo soffio si gonfiano le sue vele verso la santità!

 

Il cammino di santità di don Domenico Frantellizzi

La ricchezza della sua personalità

Bel carattere - La nota dominante, immediatamente percepibile, era la sua bontà di carattere. Gioviale, semplice. Possedeva facile la vena dell’umorismo. Metteva subito a loro agio le persone. La sua attenzione si portava spontanea verso l’altro: salvo che negli ultimi tempi, quando per la malattia il tema di dialogo si indirizzava per forza verso le sue condizioni di salute, il discorso normale sfuggiva da sé per dirigersi verso l’interlocutore e l’amico. Rifuggiva dal mettere se stesso al centro. Possedeva il segreto del far emergere la vita, le qualità, l’importanza dell’altro. 

Rispetto verso le persone- Con garbo, senza farlo apposta, apprezzava tutta la ricchezza di umanità presente nelle persone. Nelle conversazioni con lui ti sentivi onorato. La sua stima affiorava sincera nei valori della tua persona. Credeva e metteva con cura sulla bilancia il pregio delle doti che egli notava negli altri: in primo piano non veniva la critica, bensì l’onore; può darsi che durante la conversazione scaturisse anche l’aspetto del dissenso o di una certa distanza di giudizio; il suo linguaggio, infatti, emergeva schietto, “pane al pane e vino al vino”; si accalorava persino nella difesa dei suoi punti di vista; non è che vendesse a basso prezzo le sue idee: erano frutto di esperienza e di studio, calibrate da chissà quanti altri confronti di pensiero. Mai però la critica tagliente, che avesse qualche eco di risentimento o di offesa.

Con questo duplice tocco, di stima e di schiettezza, diventava semplice aprire in profondità il proprio cuore per trattare materie sofferte e problemi e disagi, che abitualmente si tengono segreti. Alla fine, quando ci si partiva da lui, ci si trovava come chi si è riscaldato al fuoco. Lasciava impronta di pace: nasceva il desiderio di ritornare. Forse anche per questa dote di altruismo egli era incline a lavorare in équipe, più che da solo.

Senso del limite - Un’altra linea, anche questa significativa e bella, la si trova nel fatto che don Domenico, fin da ragazzo e poi da chierico e da sacerdote, non aveva grande opinione di sé; riconosceva in semplicità i propri limiti, come riconosceva volentieri che altri primeggiasse negli studi, nella musica, nello sport. Ma lo faceva con gioia, quasi giocando, ricercando ciò che era il meglio per tutti, e cioè la concordia di collaborazione. Proprio per questo era dolce, accogliente, privo di barriere. Sembrava avesse assunto a programma di vita le direttive date ai primi cristiani da san Paolo: “Non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi...; non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi” (Rom 12,3.16).

Concretezza - Componente interessante della sua personalità era, pure, la nota della concretezza. Quantunque gli piacesse la nobiltà del pensiero, non era questo il suo campo preferito. Dove il suo animo spaziava con assidua ricerca e gusto era il campo dei fatti. Quando si formavano programmi o si elaboravano piani di lavoro, dopo aver ascoltato le premesse, le diagnosi, i principi, gli obiettivi ecc., sembrava che ci si fosse fermati alle soglie del problema; la sostanza stava oltre. Sì, erano importanti e le seguiva con gusto le belle cose che si richiamavano. Però costituivano fase di preparazione. Il suo punto di prospettiva era in attesa. Perciò, quando il giro della parola giungeva a lui, la discussione prendeva altra piega: passava in primo piano ciò che ai suoi occhi costituiva il nodo centrale: il “come si fa”, le metodologie di azione. I valori sono piuttosto facili da enunciare: chi non li vede?! il difficile viene dal tradurli in vita. Qui occorre saper trovare le vie giuste, sia per renderli attraenti, sia per realizzarli. Si preoccupava delle “strategie”, dei sentieri da percorrere. Si portava nel vivo dei problemi. Nel preparare le assemblee, i ritiri, le giornate di aggiornamento..., immaginava subito e concretamente i confratelli radunati: come interessarli, come appassionarli?

Fedeltà- Aspetto particolare di questo suo senso pratico era una spiccata abilità nel gestire l’economia. Aveva manifestato questo tratto fin da chierico, quando svolgeva con incantevole bravura i piccoli acquisti per i ragazzi, in relazione alla scuola, ai giochi. In seguito, incaricato di gestire economie di Case, scuole, istituti e gli venne affidata l’amministrazione della Provincia Romana nel suo insieme, si trovò impegnato a fondo su questo settore. Se ne sentì coinvolto in coscienza. Cercò di portarvi tutte le sue risorse, badando di armonizzare specialmente tre dimensioni che gli apparivano necessarie a proposito di economia: la spiritualità che deve animare dal di dentro le norme amministrative e infondervi significato; la professionalità tecnica, legale, fatta di giustizia e di avvedutezza; la finalità di servizio ai poveri, che deve risultare evidente, capitale.Questo taglio di immediato collegamento con la vita e con i poveri veniva poi ulteriormente nobilitato dal carattere della fedeltà. Gli si può applicare in toto e tranquillamente la pagina evangelica del “servo buono e fedele”. Mai, neppure lontanamente, l’ombra di trarre profitto personale dal ruolo che svolgeva. La trasparenza si imponeva assoluta. Si sentiva null’altro che amministratore dei beni affidati dalla Provvidenza per i poveri. Il suo spirito di fedeltà si misurava dalla fede e dal senso della missione: responsabile davanti a Dio e davanti ai poveri; un fatto prima di tutto di coscienza, dunque.

Amicizia - Ne aveva l’arte. La presenza della folla di gente che gremiva la chiesa nel giorno delle sue esequie ne era la prova evidente. Sapeva ascoltare. Anche quelli che venivano al suo ufficio per questioni di lavoro, avevano la certezza di poter disporre di uno spazio libero, dedicato alle relazioni umane: si andava dalla “Lazio” ai tormentosi problemi della famiglia, della salute, dei figli. Ci si poteva confidare con lui. In queste cose d’anima, poi, disponeva di una memoria fortissima, capace di ricordare il discorso lasciato tempo fa e di riprenderlo a volo. Chiamava per nome. Il “tu” scaturiva spontaneo, intenso di familiarità.

Vedevo spesso persone che venivano a trovarlo solo per incontrarlo, e non specificamente per motivi di lavoro. Preferiva chiamare col telefono, più che corrispondere per lettera. Però quando per caso veniva a trovarsi in qualche luogo che poteva offrirgli l’estro di una memoria, comprava a pacchetti le cartoline e rapidamente le caratterizzava di scherzosi saluti, facendo capire che “ti ho pensato”, “mi sei caro”. Quante volte un semplice “ciao!” può cambiare in sereno tutto un mondo tenebroso.

So che per anni è stato fedele nel seguire le vicende dei suoi compagni di studi. Si era fatto una specie di indirizzario per gli ex-allievi. Molti di questi da studenti erano poi diventati grandi, entrati nel mondo del lavoro, si erano sposati. Nelle ricorrenze più significative non mancava di inviare un pensiero, un saluto. Piccole cose, ma erano segni di uno stile di vita. Lungo il filo dell’amicizia, poi, passavano valori e condivisione e Vangelo: la sorgente di tutto, infatti, si capiva che stava nel suo cuore sacerdotale.

 

 

ALESSANDRINO MAZZUCCHI nasce a Pianello il 26 aprile 1878 quando in paese era ancora parroco don Carlo Coppini, tre anni prima che vi arrivasse a prelevare l’opera e a continuarla, don Luigi Guanella. Era il secondo figlio di Natale e Domenica Mazzucchi; la prima figlia era una bimbetta di due anni, anche lei Alessandrina in omaggio al nonno paterno che abitava in casa col figlio e la nuora. Ma Alessandrina morrà poco dopo, a quattro anni, lasciando gran rimpianto come di bambina buona e intelligente.

Al piccolo Alessandro seguirà due anni dopo, il fratellino Salvatore che andrà con lui a Como a studiare, ma non perché avesse voglia di essere prete; divenne invece dottore e notaio stimatissimo a Como, Dongo e nel collegio notarile di Appiano Gentile. Nel 1883 arrivò il quarto figlio, Leonardo: a cinque anni gli partirono i fratelli maggiori, a sette morì il padre e Alessandrino  restò con la madre buona e forte “martirella di amore di dolore”, come la chiamò don Guanella.

La famiglia del padre Natale era già stata segnata anche da altre difficoltà: benestanti, i Mazzucchi avevano passato momenti difficili per un’azione fiduciaria fallita ai loro danni.

Un parente approfittò della fiducia, speculando su tutto il denaro che gli veniva affidato in amministrazione; andò in fallimento e partì per l’America senza più dare notizie.

I Mazzucchi salvarono la terra rimasta in loro amministrazione, ma il giovane Natale dovette sospendere i suoi studi secondari iniziati a Milano per ricevere da uno zio e gestire in paese un negozio-osteria. Divenne anche nervoso e un poco irascibile, preoccupato e indebolito nella salute, così che al primo malanno un po’ consistente la sua fibra cedette quasi di colpo. Comunque per la famiglia di Alessandrino queste storie precedenti non vollero significare povertà, ma momenti di difficoltà e di tensione, che la bontà della moglie e dei figli non sempre riusciva a contenere.

In questo ambiente, così comune e un po’ triste, sbocciò la bontà lieta e serena di Alessandrino, di cui ci sono rimaste testimonianze diverse, ma concordanti, della mamma, del fratello minore, Leonardo, come del parroco don Guanella, dei maestri di Pianello e di Como, dei suoi educatori di Como, come pure di antichi compagni di scuola che, interrogati molti anni dopo, ancora ricordavano con freschezza il volto e l’esempio del condiscepolo alla scuola di S. Filippo.

L’ambiente di casa, negozio e osteria del paese, preoccupava la mamma che badava a tenerlo lontano dal locale e lo consigliava a starsene in casa tranquillo e raccolto; e il bambino si abituò a controllarsi e ad evitare pericoli.

Allora una certa severità di educazione religiosa, mentre tendeva a ritardare la Comunione, portava invece ad anticipare la Confessione. Alessandrino a cinque anni cominciò ad andare a scuola e la maestra lo preparò subito alla prima confessione che poi diventava mensile, la sensibilità religiosa e morale del bambino ebbe motivo per crescere intensamente. 

A cinque anni era maturo per andare a scuola dalla brava maestra del paese Giuseppina Lombardini di Morbegno; a otto anni superò gli esami di compimento, ossia di terza elementare, con ammirazione del direttore didattico di Como, il signor Cattaneo. La mamma gli raccomandava di studiare ed egli, guardandola coi suoi occhi sereni e spalancati, rideva, rideva; perchè una lettura gli era bastata per apprendere benissimo la sua lezione. Imparò a scrivere, per gioco, correttamente tanto con la mano destra che con la sinistra; e ci rideva sopra. I compagni lo chiamavano “grembialone” perché portava sempre un largo grembiule; ma sapeva accettare gli scherzi senza adontarsi, così che presto la lasciavano in pace …

Amava disegnare; disegni semplici, puliti; case, giardini, monti, persone e spesso chiese e cappelle con chierichetti. E continuava con il suo contegno esemplare e sereno, stimolante anche per i piccoli, irrequieti compagni.

Un giorno don Guanella, dopo una fervorosa predica sul sacerdozio, si incontrò con Alessandrino e i suoi compagni e fermandosi un momento, si tolse il cappello, lo pose sul capo di Alessandrino dicendo: “Ti piacerebbe così? Ti piacerebbe farti prete?”. Appena arrivò a casa, ancora emozionato, raccontò alla madre: “Il parroco ha voluto provarmi in capo il suo cappello, dicendo se volevo farmi prete! Oh, se potessi!”. E quella volta pianse.  

Si decise dunque di mandarlo presso la Piccola Casa della Provvidenza di don Guanella, dove avrebbe potuto studiare. Il 26 agosto 1888 Alessandrino Mazzucchi, con la mamma e il fratello minore Salvatore, giunse da Pianello a Como, nella Piccola Casa della Provvidenza. Era il primo ragazzo che, come seminarista, inaugurava il piccolo seminario che don Guanella aveva già sperato di istituire prima a Chiavenna o a Campodolcino, quindici anni prima, e che poi aveva in qualche maniera avviato a Traona nel 1880-81, subito fatto chiudere dal prefetto di Sondrio.

Da questo giorno e per quasi due anni, le storie di Alessandrino e della Piccola Casa si uniscono, perché questa diventa ormai la casa e la famiglia definitiva del ragazzo. Egli vi rimase facendosi stimare e benvolere per l’allegria, l’amabilità, l’amore per l’Eucarestia e per la delicata carità verso i sofferenti ospitati nella Casa. E proprio un atto di generosità verso un compagno malato, fu all’origine della sua morte improvvisa e prematura avvenuta il 21 giugno 1890 nella festa di San Luigi Gonzaga.


 L'eredità spirituale di Alessandrino Mazzucchi

  • Un ragazzo innamorato della vita, del bello, delle cose semplici; apprezzato e ricercato come compagno nei giochi e negli impegni sia in casa che nella parrocchia.
  • Un ragazzo maturo che ha saputo dare lo spazio giusto a Dio nella sua vita: fedele alla preghiera e alla Messa quotidiana. Era maestro ai suoi fratelli ed amici nella preghiera del rosario e nella partecipazione al mattino presto, tutti i giorni dell’anno, alla Santa Messa dalla quale attingeva la gioia e la forza per essere felice e disponibile verso tutti.
  • Un ragazzo entusiasta e pronto a servire gli altri fino all’eroismo. La sua morte nel giorno di San Luigi poteva forse essere evitata se fosse rimasto con la mamma venuta apposta per stare con lui e non avesse prevalso il “senso del dovere” nel servizio di carità verso i ricoverati della Piccola Casa della Divina Provvidenza di Como. Un ragazzo che ha saputo fare una simile scelta, posticipando anche i vincoli di affetto della madre per stare con un ammalato non può che essere in sintonia profonda con il Buon samaritano per eccellenza, Cristo Signore. Il Beato Cardinal Ferrari amava raccomandare Alessandrino come modello ai ragazzi della casa di Como: “Voi della Casa della Divina Provvidenza abbiatelo caro come un tesoro”.

 

Il cammino di santità di Alessandrino Mazzucchi

La sua vita, si potrebbe definire, è la storia, quasi il ritratto con aureola di un ragazzetto che seppe unire, quasi tutti i tratti di bontà precoce senza sbavature, in un quadro di qualità naturali e di grazia che stupirono tutti quelli che gli furono vicini e ne sentirono parlare dai testimoni diretti. Una luce senza ombre, si direbbe, se non si avesse il timore di esagerare o di stravedere. Ma anche nulla di eccezionale o di strano, se non quell’accumularsi insieme in una personcina snella e regolare di tante qualità, più spesso negli altri suddivise fra più persone. 

"Era di fisionomia aperta, di costituzione piuttosto gracilina; il bel viso candido e oblungo; gli occhi grandi, ridenti e sereni, che ti guardavano con attenta ingenuità; vi traspariva la sua innocenza e intelligenza non comune, l’affettuosità tenera e calda…

Non era uno di quegli insipidi bambini, che stan lì, rinsaccati e àpati, e son detti buoni, perché non hanno né vita, né spirito e non si muovon mai; egli era, anzi, di spirito vivace; d’intelligenza perspicace e pronta già in evidenza dai primi anni di infanzia”.

Precoce era pure la sua virtù: una virtù sbocciata e portata sempre più innanzi dalla grazia, ma anche riflessa e matura in un comportamento ordinato nella sua spontanea schiettezza e semplicità, da colpire chiunque l’osservasse.

E nel paese, si diceva, indicandolo nel passare: “L’è ‘l Sandrin di Mazucch!”. Colpiva la sua gioia e il suo ridere aperto e pulito. 

Aveva un senso profondo di Dio, lo sentiva vicino, come un amico a cui poteva rivolgersi e parlargli, pregarlo a lungo; diventò maestro di preghiera per i suoi fratellini e pa’ Natale a volte ironizzava su questo “pretino” di sei o sette anni.

Si sentiva in compagnia degli angeli e dei santi e gli sembrava che questi pregassero con lui. Il bambino viveva già in Paradiso….allora insegnava anche ai fratelli minori a pregare. Leonardo ricordava come un giorno gli avesse insegnato la Salve Regina in latino: lui quattro - cinque anni e Alessandrino nove o dieci, maestro di latino. Arrivati quasi alla fine, alle parole “post hoc exilium”:  “io mi fermai: post hoc … post hoc …: non volevo credere che nella Salve Regina ci fossero quelle parole così strane. Ed egli infaticabile: post hoc! post hoc!, e insisteva a dirmi di andare avanti e di ripetere, che era giusto così. Non fui persuaso, se non dopo aver aperto la finestra e averne interrogata la mamma, che stava abbasso in cucina. Alla risposta che era giusto, mi persuasi”.

Naturalmente un ragazzo così  era finito nel gruppo dei chierichetti della parrocchia di don Guanella ed era fedele al suo compito e ai suoi turni anche nei giorni feriali. In quell’epoca senza televisione serale, senza luce elettrica e con tempi di lavoro di dieci ore giornaliere, i ritmi della vita erano diversi; molti che volevano andar a Messa anche nei giorni feriali, prima del lavoro, dovevano alzarsi assai presto e la Messa seguiva il segnale dell’Ave Maria del mattino (d’estate era alle ore quattro) e Alessandrino scongiurava i genitori e la mamma soprattutto perché lo svegliassero e lo lasciassero andare alla Messa; recitava il suo latino quasi perfetto, anche nei salmi e alle letture, quando c’era l’ufficiatura dei defunti o i vespri domenicali.

Don Guanella lo osservava al catechismo, attento e sempre pronto a spiegare, a ripetere, a domandare; lo vedeva all’oratorio, allegro, vivace, simpatico: correva, rideva, saltellava, giocava alla palla con mirabile destrezza, in quell’ampio prato vicino alla chiesa parrocchiale. Andavano al lago, salivano sui monti, giocando, cantando; la gente commentava: “quel figliolo di Natale ha un’aria particolare così simpatica e cara: è proprio un figliolo che ha dello straordinario!” .  E anche don Guanella doveva convenirne: no, non era strano e anormale quel figliolo, era proprio straordinario.

Nella Piccola Casa della Provvidenza c’era l’usanza di fare un giorno ogni mese, l’esercizio della buona morte; ciascuno allora che si era in pochi, si sceglieva il giorno che voleva e Alessandrino si era scelto il 21 di ogni mese in onore del suo caro San Luigi. Era solito ripetere: “Oh, come mi piacerebbe morire come morì San Luigi: nel giorno di San Luigi!”.

In quel giorno - 21 giugno 1890 - festa di S. Luigi Gonzaga, si festeggiava l’onomastico di don Guanella. C’era anche la mamma che era venuta a trovarlo, ma  egli volle mangiare lo stesso tra i ricoverati.

“Venne l’ora del pranzo. Un pranzetto a parte era stato preparato per la signora Domenica e i suoi figli; ma Alessandrino tanto pregò la mamma, che ottenne di continuare la compagnia al buon Lino (Crosta) anche in quel dì. Rincresceva al suo cuore d’oro di lasciar solo e mesto il poveretto, proprio in quel giorno in cui tutti erano allegri e contenti. Con la promessa, dunque, di ritornare presto alla mamma  sua, volò il giovinetto presso il suo caro Lino e con lui incominciò a mangiare, benché provasse più difficoltà e ripugnanza del solito a mandar giù il cibo, pur tuttavia, sforzandosi e vincendosi, riuscì a inghiottire la sua parte. Ma alla fine, non potendone più dallo sconvolgimento fisico disse al compagno: ‘Sei contento, vado a giocare un po’ sull’altalena, per vedere di meglio digerire e poi torno alla mia mamma, che mi aspetta?’. Al che subito il compagno acconsentì”.

Gli amici lo invitarono a giocare insieme e poi a salire sull’altalena. “Egli si fece il segno della santa croce e vi montò, aggrappandosi bene alle corde; certo Bianchi di Spurano gli diede la spinta e lo sollevò in alto. Gravato nello stomaco e nella testa dal cibo appena ingerito e dal nauseabondo odore presso il Crosta, un capogiro improvviso lo assalì e fu visto abbandonar le corde, rovesciarsi indietro e precipitar dall’alto sul terreno, battendo forte sul medesimo il cervelletto. Fu uno spavento! Tosto raccolto, privo di sensi e insanguinato, fu, da un certo Domenico tipografo, portato in braccio in una saletta e deposto sopra un piccolo divano. Messogli sotto il guanciale, vi restò grossa macchia di sangue. Don Luigi, avvisato accorse presso il suo caro e prediletto figliuolo, diede l’assoluzione sacramentale condizionata al giovinetto e andò in cerca della madre, per prepararla, con ogni delicatezza e prudenza alla tristissima notizia. ‘Mi rincresce disturbarvi, Domenica: il nostro Alessandrino si sente poco bene!’. Rimase attonita la donna; poi, di colpo, esclamò: E’ morto, è morto!”. Alessandrino morì infatti la sera stessa, a poco più di 12 anni.

 “Don Guanella, che sofferse tanto nel vedersi tolto quel figlioletto caro, speranza per lui ben promettente, lo ricordava spesso e ne parlava con più vivo rimpianto, esclamando: ‘Ah, era proprio un fiorellino eletto ed il Signore se l’è voluto portare in Paradiso! Fiat voluntas Dei!’. E lo proponeva a modello a tutti, narrandone i tratti di virtù e di pietà singolari. Le Suore poi, ne tennero sempre viva in cuore la memoria e l’ammirazione”.

E fu ancora don Guanella che sulla lapide del cimitero di Pianello (in seguito sostituita da un'altra per  tutti i morti della famiglia), sotto l’epigrafe del padre Natale Mazzucchi, fece incidere la seguente: “Il figlio Alessandrino – nel sorriso dell’innocenza – ricco di particolaridoni – di natura e di grazia – in età di anni 12 volò al Cielo – il 21 giugno 1890 – in grembo al genitore diletto.”  Commenta il biografo:“in questa chiara, sobria ed eloquente epigrafe un santo sintetizza egregiamente la vita e le virtù di un altro piccolo santo”.

 

 

DON AGOSTINO VALENTE nasce a Villa San Sebastiano, in provincia dell’Aquila, il 7 giugno 1924, da genitori dotati di profonda umanità e di fede. Il signor Ambrogio, suo padre, era un tipo aperto, dallo sguardo sereno, nel quale subito potevi leggere messaggi di cordialità che mettevano a proprio agio. Teodora Tellone, sua madre, nella famiglia costituiva il polo della bontà religiosa, che coloriva di affetto e di preghiera tutto ciò che nel quotidiano serviva alla crescita dei figli. Il piccolo Agostino, battezzato il 24 giugno 1924 e cresimato il 23 novembre 1931, maturò le sue prime scelte di vita al caldo della famiglia e ai piedi dell’altare, dove andava a servire la messa come chierichetto. Con l’aiuto del parroco, il signor Ambrogio si mise alla ricerca di come dare consistenza ai desideri del suo ragazzo. Così venne a conoscenza per la prima volta dei Guanelliani, i quali avevano una piccola scuola apostolica a Ferentino, in provincia di Frosinone. Seguirono le pratiche di ammissione, che si conclusero felicemente.

Il 15 ottobre 1936 Agostino fece il suo ingresso nel seminarietto di Ferentino. Allora, come direttore, era presente don Remo Bacecchi. L’anno successivo salì allo Studentato di Fara Novarese per proseguire a livelli più impegnativi i programmi di studio, di discernimento e di formazione. Per i ragazzi l’esperienza di Fara Novarese costituiva un duro banco di prova, non soltanto per la disciplina, che allora vigeva piuttosto severa nei seminari, ma soprattutto per le differenze ambientali di cultura e di clima. Le difficoltà non indebolirono la volontà di Agostino, anzi gli temprarono la volontà, gli furono occasione per far emergere ed affinarle belle qualità di intelligenza e di carattere, soprattutto nel campo della fedeltà alle voci del cuore.

Con la grazia del Signore e con l’aiuto dei suoi educatori, le numerose situazioni di sacrificio si trasformarono in utile materiale di costruzione per la sua persona: lo spinsero a mettere a base della vita una preghiera intessuta di fede, sperimentata nel dialogo spontaneo con Dio e nel ritmo dell’osservanza delle regole. Il 12 settembre del 1941, dopo otto giorni di Esercizi spirituali iniziò il noviziato nella casa di Barza d’Ispra (Varese). Vi trascorse quattro anni: fervidi, basilari per il suo futuro. I primi due furono di noviziato, conclusi il 12 settembre del 1943 con la prima professione religiosa. Nella medesima Casa proseguì gli studi per un biennio. All’inizio del settembre 1945 passò a Como per il quadriennio teologico. Il 2 aprile del 1949 fu Ordinato Diacono e il 26 giugno dello stesso anno Sacerdote da Mons. Felice Bonomini nella cattedrale di Como. L’Ordinazione sacerdotale segnò a fondo l’animo di don Agostino. Gli fu affidato, come primizia del suo ministero sacerdotale, il Seminario di Anzano del Parco dove si era trasferito lo Studentato di Fara Novarese. Vi trascorse un triennio, tra studio personale, lezioni ai ragazzi e molto ministero nelle parrocchie vicine. Poi gli fu chiesto di partire per Roma, Via Aurelia Antica, dove lo attendeva un lavoro analogo nel campo formativo e nell’insegnamento ai ragazzi delle Medie. Trascorso un triennio, don Agostino fu chiamato, nel settembre del 1955, ad assumere il ruolo di Prefetto del Seminario. In quegli anni i seminaristi erano circa un’ottantina .

Nel 1971 venne eletto Superiore della Casa S. Giuseppe di Via Aurelia Antica, il Centro dei nostri ragazzi con disabilità. Visse con intensità di padre questa esperienza non facile. Allo scadere del triennio ancora una volta don Agostino fu inviato come Superiore della comunità di Alberobello e direttore del Seminario minore pugliese. Ad Alberobello la sua disponibilità fece di lui un Padre Spirituale ricercato e apprezzato dal clero, dai laici, dai giovani e da semplici fedeli del popolo di Dio. Questa sua propensione a coltivare le anime convinse i Superiori Maggiori che don Agostino fosse il Padre spirituale ideale per i nostri chierici del Seminario teologico internazionale di Roma. A Roma, infatti, don Agostino visse pienamente per ben 27 anni, il binomio del Fondatore “Date Pane e Signore”. Al suo compito di Padre spirituale del Seminario aggiungeva infatti momenti di presenza significativa tra i nostri ragazzi nel repartino dei più gravi, specie nel momento del pranzo e della cena. Andava con passione di fede e di amico in mezzo a loro, si rendeva disponibile ad imboccare coloro che facevano più difficoltà, si intratteneva con loro inventando modi davvero fantasiosi per comunicare. Anche il personale del nostro Centro trovava in lui la sapienza di una parola, l’indirizzo per un impegno maggiore, l’accompagnamento nei momenti difficile della vita personale e di famiglia.

Nel 2003 cominciò ad avvertire i primi disturbi al cuore che alla fine lo convinsero nel 2004 a ricoverarsi al Policlinico Gemelli per un intervento chirurgico. Subì l’operazione. Tutto sembrava fosse riuscito bene, ma all’improvviso, il 13 luglio, il suo cuore arrestò il suo battito. Era giunte l’ora del suo incontro con il Padre del cielo.


 

L'eredità spirituale di don Agostino Valente

a). Intensità di vita

È uno degli aspetti di primo piano della figura di don Agostino: l’intensità di vita come uomo di Dio, come pastore d’anime, come guida di comunità religiosa, come formatore, come direttore di attività... In ognuno di questi campi don Agostino operava come una presenza di riferimento: capace, ingegnoso, dal cuore grande. Ovunque le circostanze ne richiedessero l’azione, non deluse mai le attese, anche quando si trattava di mettere mano a nuovo solco.

Non era però un tipo iperattivo. Impegnato, fedele, generoso nel lavoro, disponibile nel rispondere agli appelli di collaborazione, mai però esagerato. L’agitazione non rispondeva affatto al suo carattere. Un punto emergeva con splendida linearità: la preghiera. Si capiva a volo che il suo tempo più prezioso egli lo riponeva nel mondo della vita interiore, soprattutto nella meditazione contemplativa.

Quando nelle sue peripezie apostoliche doveva mettere mano a nuovi progetti, possedeva il segreto di sapersi concentrare e far convergere ad alto potenziale le sue energie di spirito e di esperienza sul nuovo campo di missione, in modo da valutarne le esigenze, capire i percorsi già compiuti, ricercare con attento ascolto il pensiero altrui, prima di elaborare nuovi obiettivi di bene. Soltanto dopo questa pausa di osservazione, iniziava ad inserire, con rispetto, la sua azione che poi, come lievito, in breve arco di tempo si rivelava carica di spinta, capace di provocare crescita e novità.

Per esemplificare, può essere valido almeno qualche accenno ad una delle componenti più interessanti del suo carattere: la sensibilità artistica. Su questo versante, sorgono subito in abbondanza nella memoria un nugolo di episodi, rivelativi di squisite qualità innate ed anche coltivate, almeno per un certo tratto. Impressionava lo stile - talvolta persino raffinato - del suo scrivere e del suo comunicare. Suscitavano ammirazione l’eleganza e la passione con cui preparava i lavori teatrali, le accademie, gli incontri musicali. Ogni elemento veniva da lui filtrato con diligente sensibilità. Così pure si rimaneva orgogliosi di partecipare alle esecuzioni del coro liturgico nei momenti forti delle solennità religiose, alle quali si giungeva attraverso lunghi periodi di concertazioni. Altre angolature d’arte sono pure la poesia che gli traspariva dagli occhi e dalle mani, quando con gusto di esperto coltivava nel giardino le rose, i garofani, le piantine, i germogli.

Ma l’arte più toccante era quella che gli affiorava da misteriose sorgenti soprannaturali quando, nei momenti particolari di confidenze profonde, egli riusciva a trasformarsi di volta in volta in padre, fratello e amico, dolce, intuitivo, pacificante. Tutto con disarmante semplicità. Si sentiva che il suo animo, vibrante di fede sincera e affettuosa, entrava in sintonia con il cuore altrui, per cui il suo sguardo, la sua parola riuscivano a portare pace anche nelle situazioni più sofferte o ad esaltare in nuova luce eventi già di per sé luminosi e lieti.

b). Esperto di formazione

Gran parte della sua esistenza don Agostino l’ha trascorsa nelle responsabilità della formazione sacerdotale e religiosa: con i ragazzi, con i giovani, con i candidati ormai vicini alle tappe decisive della professione perpetua e del sacerdozio.

La molteplicità delle esperienze nel ministero pastorale gli aveva consentito di acquisire sul campo una conoscenza abbastanza capillare del mondo giovanile, a partire dai contesti concreti della famiglia, della parrocchia, dell’oratorio, del mondo scolastico. La frequentazione in prima persona degli ambienti pastorali - non solo di paesi e piccole contrade, ma anche delle grandi città - gli permetteva di stabilire con scioltezza il contatto con i candidati, bisognosi di comprensione e di guida.

Negli scaffali del suo studio ha lasciato reparti interi di quaderni nei quali condensava il frutto della sua preparazione per conferenze ed omelie. Non si ripeteva mai nell’esposizione degli argomenti; i discorsi di comunità erano tutti posti per iscritto; l’appoggio sulla base scritta gli permetteva di essere robusto di pensiero, appropriato nell’espressione, ben proporzionato nella distribuzione delle parti. Noi della comunità lo ascoltavamo volentieri. Non mancavano le battute del realismo e del brio scherzoso.

Il più e il meglio accadeva nel laboratorio dei colloqui personali: erano i momenti fecondi delle confidenze e delle riletture profonde della storia viva di ciascuno, allo scopo di discernere meglio le voci dello Spirito e irrobustire, motivare, dare slancio di verità e di gioia nel costruire la propria casa sulla roccia... Di fronte alle correnti esistenziali della cultura contemporanea imbevuta di individualismo ateo, era consapevole di quanto fosse necessaria oggi una formazione consistente, a carattere dialettico, che educasse ad integrare atteggiamenti e valori apparentemente contrari tra loro, ma ugualmente indispensabili, senza perdere né l’uno né l’altro, costruendo armoniosi equilibri tra il duplice movimento del pendolo: una formazione che sviluppasse persone insieme contemplative e apostoliche, dolci e forti, umili e creative, ben inserite nel mondo e tuttavia tenaci nell’appartenenza alle realtà della fede. Una fatica lunga, da cesello, gestita con pazienza di certosino.

Quanti “buoni pastori” hanno ricevuto coraggio e impronta evangelica da don Agostino e ora sono sacerdoti esemplari che lavorano fedeli nella vigna del Signore! Quanti ex-allievi hanno imparato da lui a gustare le gioie della rettitudine, facendo il bene ovunque, ognuno lungo la via della vita! E della sua umile, nascosta ma efficacissima azione, don Agostino ora vede chiaramente i frutti, e lo immagino gioire nella gloria con le parole del salmo: « Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo. Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni» (Sal 125,5-6).

c).  Una vita per l’essenziale

Don Agostino ha realizzato una storia bella, complessa, impegnata, posta interamente sotto il segno del mistero divino, feconda come i tralci di una vigna nelle molteplici diramazioni del servizio ai poveri e nella salvezza delle anime.

Ad un’esistenza così piena vi hanno contribuito le sue origini, rigogliose di vitalità famigliare, ricche del prezioso patrimonio ricevuto dai genitori, dai fratelli, dal paese.

Decisivi e profondi sono stati gli itinerari da lui percorsi nel dare progressiva attuazione alle istanze della sua vocazione, nella docile e attenta percezione degli impulsi dello Spirito. Sono unanimi le testimonianze su don Agostino giovane, descritto come candidato di valore, che cercava Dio con cuore sincero e talvolta inquieto, coraggioso nel vivere seriamente l’osservanza del seminario, dedito allo studio e aperto all’amicizia con tutti e con ciascuno nella comunità. Si notava autenticità genuina nella mente, nel cuore, nell’azione di questo giovane.

E poi nella sua vita sacerdotale, quanta esuberanza di virtù: quella pietas ancorata al Vangelo e allo Spirito che gli suggeriva uno stato d’animo quasi di perenne adorazione; quella charitas così concreta ed inventiva, ispirata alla scena della lavanda dei piedi lasciataci da Gesù come simbolo nell’Ultima Cena; l’indomabile fede che trapelava sin dal suo sguardo e che gli permetteva di avvolgere il povero nel grandioso mistero proclamato dal Vangelo proprio nella sua pagina più guanelliana: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34).

-Tra tutte queste linee, autentiche e di gran pregio, che configurano la personalità di don Agostino, potrebbe essere utile domandarsi dove stia l’essenziale del suo spirito, il cuore del suo mondo, ciò per cui ha cercato di vivere, il punto geminale e di sintesi, dal quale tutto ha preso sviluppo e nel quale tutto si potrebbe raccogliere.

Avendo conosciuto piuttosto da vicino don Agostino, mi sembra di cogliere l’essenziale del suo spirito in due termini raccordati tra loro da intima unità di comunione: Gesù e il povero. Un binomio inscindibile, dove si raccoglie la pienezza dell’amore di Dio e la ragione suprema della nostra azione apostolica.

Don Agostino ha vissuto questo mistero con straordinaria elevatezza di spirito. Nella fede orante e nella riflessione, ne aveva fatto il cardine di tutta la sua esistenza di uomo, di prete e di religioso. Si era lasciato educare dalla grazia a stare in ardente comunione con Gesù. Don Guanella ci parlerebbe di intimità con il nostro Fratello maggiore, il Primogenito della nostra famiglia. Però questo primo legame di comunione interpersonale con Gesù rinvia ed esige, per innato dinamismo, ad un’altra comunione che ti slancia verso il povero, quello che Gesù stesso chiama suo «piccolo». Questo binomio don Agostino lo ha sempre cercato e lo ha vissuto con tutto il cuore. È la sua preziosa eredità: carica di valore, attuale, salvifica, tutta in linea con la vita e il carisma del beato Luigi Guanella.

 

Il cammino di santità di don Agostino Valente

a). Formatore nei Seminari

Seminari minori: Anzano, Roma, Alberobello.

Nel ruolo di insegnante nelle classi della scuola media, don Agostino si trovò nella necessità di ampliare ulteriormente il ventaglio delle materie scolastiche affidate alle sue competenze. La sua presenza in seminario era quotidiana, con un cumulo di lavoro che raggiungeva le 20 ore di lezione a settimana, seguite naturalmente dalle fatiche della correzione dei compiti e della preparazione delle lezioni, senza mai tralasciare le altre attività di ministero.

Già dai primi tempi, il suo bel carattere, giocoso e serio allo stesso tempo, semplice nel linguaggio, ma ben esperto nella conoscenza delle sue materie, si attirò le simpatie degli allievi, come pure dei superiori e degli altri docenti del seminario. Qualunque cosa gli venisse affidata, non solo la portava a felice compimento con esecuzione “a regola d’arte”, ma vi immetteva simpatici tratti di accuratezza e di originalità, di fattiva intraprendenza e di schietta disponibilità alla collaborazione.

Con lui si lavorava di gusto, in letizia di famigliarità; suscitava in chi gli stava accanto e collaborava con lui ammirazione particolarmente per il suo modo di pregare, continuo, assorto; per il fervore con cui celebrava la santa Messa e attendeva con ansia le giornate delle Quarantore o delle solennità liturgiche, quando lo si vedeva premuroso nel preparare i fiori, gli addobbi, i candelieri, i paramenti, i programmi, i canti, i paggetti. Per la cantoria ci si aiutava per più settimane nell’insegnare le parti alle diverse voci e nel concertare i vari numeri del programma. Nelle esecuzioni egli dirigeva. Era capace di trasferire nel canto liturgico il medesimo spirito di fede e di attenzione che poneva nel rendere bella, ordinata e accogliente la chiesa.

Un altro campo ricco di sensibilità e di arte era costituito dal teatro. A ricorrenze quasi fisse, il seminario viveva l’ora delle rappresentazioni, disposte sapientemente su due principali registri: la commedia e il dramma. Ogni esecuzione segnava come una tappa per la vita della comunità. Si provavano a lungo, con meticolosa scelta degli effetti, le musiche di fondo, i passi, il fruscio delle acque, i colori delle scene... Gli attori dovevano conoscere con tutta sicurezza la propria parte. Le prove continuavano per più settimane, generalmente eseguite a sera, sul palco del capannone situato tra il cortile del seminario teologico e la riproduzione della grotta di Lourdes. Don Agostino era l’anima anche di questa piacevole ma impegnativa attività: instancabile, esigente, magistrale e signorile nelle sue indicazioni, sembrava che avesse sempre fatto il regista teatrale.

La sua vera “arte” era nel vivere ogni circostanza con premurosa attenzione agli altri e con familiare letizia.

Seminario teologico internazionale di Roma.

Principalmente si dedicò ai chierici, come padre spirituale accogliente nei dialoghi personali, affettuoso e lineare nella testimonianza del vivere quotidiano; le sue omelie-conferenze erano il “cuore” della giornata settimanale di riflessione interna alla comunità e don Agostino sapeva avvincere i chierici con la sua parola puntuale, arguta, robusta di pensiero e di forma. Questi incontri di meditazione e preghiera presero il valore di un appuntamento cadenzato, scandito a ritmo regolare, con una serie di temi che don Agostino preparava con assiduità di studio. I suoi interventi giungevano saporosi di novità, ben collegati tra loro, articolati con sapiente progettazione, senza nulla lasciare all’improvvisazione. Si capiva che l’argomento, oltre ad obbedire ad un disegno d’insieme, si proponeva di rispondere a bisogni attuali dalla comunità. Le sue parole venivano pronunciate con voce calma, abitualmente dolce, a tratti venata di tenerezza; altre volte, più raramente, assumevano il timbro forte del vigore autorevole, quando si trattava di fissare valori chiari e linee conduttrici coerenti.

Le sue parole provenivano da una mente allenata allo studio, ma suonavano sempre affettuose, cariche di cuore e di saggezza, come di un padre che ama i suoi figli per i quali non vuole altro che la loro migliore riuscita. Stupiva la sua capacità, anche letteraria, con cui riusciva ad esprimersi, con termini scelti con intelligenza e citazioni bibliche sempre appropriate: stile semplice, senza mai diventare né magniloquente, né sciatto. C’era come una nobiltà nel suo linguaggio, quasi riflesso di uno spirito attento, sensibile, plasmato a semplicità e trasparenza.

b). Con i nostri ragazzi e il personale di Via Aurelia Antica

Un secondo raggio di attività, luminosissimo ed in continuo crescendo, fu il dono della sua presenza tra gli ospiti della Casa: si era ritagliato per ogni giorno tempi opportuni da regalare ai suoi “ragazzi” ospiti del San Giuseppe. Andava in mezzo a loro con passione di fede e fraterna disponibilità; nell’intrattenersi con i più gravi inventava i modi più fantasiosi per comunicare, ora con una parolina nota o un nomignolo, ora con un buffetto, una cantilena o una carezza, talvolta prendendoli di peso tra le sue braccia per dare loro una posizione diversa nel lettino. Uno dei momenti più difficili, ma che gli divennero di tutto agio, era quello di incoraggiare ed aiutare ognuno dei suoi “piccoli” a mangiare, proprio come fa una mamma con il suo bambino!

Da questa sua costante presenza partivano poi le mille occasioni per incontrare le molte persone che si muovono nel Centro. Rivolgeva particolari attenzioni alle persone che più da vicino partecipano alla vita dei ragazzi, ne seguono gli sviluppi, ne indovinano gli umori, le solitudini, i bisogni, le sofferenze. È facile intuire quanto sia necessario trovare un sostegno sicuro, che sappia conciliare la sofferenza con la serenità, i crucci che già la vita normale addossa ogni giorno con quelli ancor più duri e misteriosi di queste creature innocenti, e tuttavia misteriosamente segnate dal mistero della Croce. Si comprendono, allora, le oscillazioni d’animo, le inquietudini, forse anche le angosce che possono attraversare il sentire umano e interpellare la fede, di fronte a certi oscuri tunnel di incertezze, inutilità e anche di sconfitte nel proprio impegno. Con delicata sensibilità, don Agostino indovinava subito, in profondità; sapeva sempre trarre dal tesoro del suo cuore sacerdotale la parola giusta, il gesto, lo sguardo, la confidenza adatta al momento, con uno stile tutto suo, venato spesso di umorismo, mai a danno della verità affermata come luce e gioia di ogni scelta vitale.

c). L’apostolato nel territorio

Un terzo orizzonte da lui frequentato era l’apostolato esterno nelle comunità religiose, nelle parrocchie, nella pastorale spicciola verso persone che lo chiamavano o che venivano a fargli visita per direzione spirituale, confessioni, o semplicemente per ascoltarlo. Ogni sua giornata, dal sorgere del sole fino alla notte fonda, veniva da lui intessuta di questo multiforme lavorio. Per oltre venti anni, ogni venerdì pomeriggio arrivava due ore prima della Messa nella vicina parrocchia di Santa Maria della Perseveranza per ascoltare le confessioni, e sempre c’erano già dei fedeli che lo attendevano.

Soltanto il Signore conosce i coloriti, le esultanze, il sacrificio, talvolta gli eroismi di questo suo paziente ministero di buon pastore e di sensibilissimo buon Samaritano delle anime, di questo servo fedele, davvero buono, animato fin dalle radici dal carisma del Fondatore.

 

Fratel GIOVANNI VACCARI nasce a Sanguinetto, nel Veronese, il 5 giugno 1913; entra a Fara Novarese dove, dopo un tentativo di apprendere di greco e di latino, è convinto da don Michele Bacciarini a diventare fratello coadiutore. Professa in perpetuo a Barza d’Ispra il 12 settembre 1939 alla vigilia della guerra mondiale, già iniziata con l’invasione della Polonia da parte dei tedeschi. In due riprese è a servizio per più di 12 anni presso il cardinal Clemente Micara a Roma. Parte poi per la Spagna dopo trascorre in un impegno encomiabile nel campo vocazionale gli ultimi anni della sua vita, stroncata da un incidente stradale il 9 ottobre 1971.


L'eredità spirituale di fratel Giovanni Vacari

Elementi di imitazione lasciati in eredità

La devozione a Maria Santissima.

Il suo breve testamento spirituale è totalmente mariano: “ Amarti, o Maria, e farti amare ad ogni costo”. “Madre mia, fiducia mia, pensaci tu, mi abbandono in te, sono sicuro di te”. “O Maria, aiutami a vivere una vita interiore più intensa e a farmi santo nell’esercizio della carità”. “Quando, o Vergine Immacolata, sarò liberato da questo corpo di morte e verrò a vederti eternamente in Paradiso?” ( 1 novembre 1955).

“Tutto è nelle tue mani e tutti ho collocato nel tuo cuore. Sarà forse l’ultima volta? Quando ti vedrò in cielo?” (1970 a Lourdes l’anno prima di morire).

Il suo impegno gioioso nella pastorale vocazionale.

“ Posso affermare di non aver conosciuto alcuna persona che non rimanesse ammirata della santità di Fratel Giovanni. Le sue erano parole semplici e in un povero spagnolo, ma c’era in esse qualcosa di straordinario che incantava piccoli e grandi” (Suor Nair Damè, guanelliana).

Il suo “segreto di riuscita”? Anteporre la preghiera alla parola:

“ Ho accompagnato più volte Fratel Giovanni nelle sue visite a famiglie di alunni. Entrando nelle case si toglieva la berretta, salutava cortesemente e incominciava a recitare con grande devozione un’Ave Maria, un’invocazione al sacro Cuore e a san Giuseppe; poi si metteva a parlare del Signore, della Madonna, di San Giuseppe e della nostra Opera in maniera tale che grandi e piccoli pendevano dal suo labbro, entusiasmati e commossi” (Jesùs Nunez Pelayo, exallievo).

 

Cammino di santità di fratel Giovanni Vaccari

La prerogativa del cammino di santità: la sequela di Dio con gioia e semplicità!

La pagina evangelica che potrebbe riassumere la sua vita è quella di Marta e Maria.

Spina dorsale del suo cammino di santità:alla sequela di Dio, sulle orme di don Guanella, vivendo la gioia e la semplicità. 

Elementi portanti nella sua formazione:

la sua numerosa Famiglia (15 figli). Il padre Pietro si sposò due volte, la prima con Clementina Passilonga dalla quale ebbe sei figli e la seconda con Giuseppina Carmela Magnani dalla quale ebbe nove figli: Giovanni era il primogenito dei nove. Dalla famiglia imparò:

  • la pietà con respiro dell’anima;
  • il lavoro dei campi, la custodia del bestiame, la coltivazione dell’orto;
  • la buona ed austera educazione;
  • la vita spirituale vero sostegno della vita.

Nei suoi appunti Fratel Giovanni scrive: “ Ogni sera , mentre la mamma faceva la buona polenta, a me e a Marcello insegnava le orazioni. Inginocchiati su una sedia e rivolti verso la parte da dove pendeva l’immagine della Sacra famiglia, la nostra buona mamma ci suggeriva parola per parola il segno della croce, e poi andava avanti con tutto il suo repertorio”. “Croce santa, croce degna! Dio mi guardi, Dio mi segna… se no fusse ben segnà, in riparassion baserò la tera per tre volte per la passion de la vostra morte”.

E ancora fratel Giovanni: “ Le serate d’autunno e d’inverno di solito si passavano così: dopo cena il papà iniziava il santo Rosario e noi tutti, inginocchiati con i gomiti sul tavolo, rispondevamo. La mamma sfaccendava in silenzio con l’aiuto delle sorelle”.

 

La scuola del paese.

L’anziana maestra di Giovanni di lui ha scritto: “ Si distingueva per la sua generosità verso i compagni e per la sua allegria; garbato e gentili con tutti. L’aritmetica era il suo spauracchio…”.

 

Il suo parroco.

Don Antonio Romagnoli che seppe scorgere in Giovanni i segni di vocazione e lo preparò lui stesso attraverso incontri di ripetizione al grande passo di entrare in seminario a Verona. Giovanni per l’incapacità a superare gli esami specie di matematica e di latino lascia subito il seminario.

 

Il seminario.

Dopo il prima impatto con la città del Verona, frastornante per un ragazzo di campagna, Giovanni si adattò facilmente ai ritmi della vita nel chiuso del seminario. Purtroppo però gli studi non erano il suo forte: matematica, latino...montagne invalicabili. Gli esami, asuo dire, furono un disastro... e venne dimesso.

Ritornò lo stesso giorno degli esami a Sanguinetto; un po’ di tempo per dimenticare la triste avventura e poi la sua vita ricomincia come prima, in famiglia, nei campi, in chiesa. Si dedicò ai giovani dell’Azione Cattolica che presto lo elessero loro presidente. Aiutato dal suo parroco continuò la cura della sua vita spirituale tanto da suscitare interesse in diversi religiosi di passaggio nel suo paese. Ma Giovanni a tutti rispondeva: ”Di farmi frate non me la sento proprio”.

 

L'Opera don Guanella

Ed ecco anche per lui l’ora della misericordia. L’arciprete di Casaleone, don Luigi Arduini, presso il quale una zia di Giovanni svolgeva la mansione di domestica, conosciuta la sua intenzione, lo appoggiò presso don Michele Bacciarini, allora direttore dello studentato guanelliano a Fara Novarese, il quale lo accolse ben volentieri sulla base della buona presentazione offerta da don Arduini.

Giovanni entra dunque nell’opera don Guanella la sera del 20 ottobre 1933, Anno Santo della Redenzione. Viene iscritto alla V ginnasiale, ma anche qui le difficoltà scolastiche emergono subito nei primi giorni di scuola. Mentre tra i professori si ipotizzano varie possibilità di recupero, il giudizio del direttore è categorico: meglio lasciar perdere! Faccia il fratello laico!

La reazione di Giovanni fu durissima: Neanche per sogno !

Giovanni se la prese un po’ anche con la Madonna del Santuario della Comuna alla quale si era affidato più volte nelle difficoltà. Confidò lui stesso più tardi: “Solo il Signore sa quanto penai! E quel Natale lo passai fisso in una decisione: ritornare a casa”

Solo la furbizia o meglio sapienza del padre spirituale riesce a mettere in discussione la sua decisione : “Giovanni e se andandotene tu perdessi l’anima?”. Fu pronta la sua risposta: “ Allora rimango” .

La vita cambia rapidamente gli viene affidato l’incarico di aiutante cuoco e poco dopo di capo cuoco. Al termine dell’anno il giudizio di don Michele Bacciarini in vista dell’ammissione al noviziato diceva: “ Condotta morale esemplare; carattere mite e obbediente”.

L’8 settembre 1934 Giovanni con i suoi compagni inaugurano la nuova sede di noviziato a Barza d’Ispra. Nei due anni successivi si completò la struttura e il 18 novembre 1936 il cardinal Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, consacrò l’attuale chiesa.

“ La cucina è l’altare della tua messa, le pentole i tuoi vasi sacri: dentro c’è la Provvidenza”. Queste parole d’augurio di un amico missionario a Fratel Giovanni creano armonia e serenità nella sua vita e nella sua ormai definita missione: sarai cuoco della comunità!

Chi lo ha seguito in quegli anni afferma: “ Pregare e Patire erano le parole spesso ripetute da don Guanella. Giovanni le fece proprie, impregnando la sua giornata laboriosa di spirito di sacrificio, umiltà, obbedienza, carità, mansuetudine, pazienza”.

Don Luciano Botta, suo compagno di noviziato scrive: “ Durante il secondo anno a Barza io caddi ammalato per un lungo periodo e rimasi quasi segregato dai miei compagni. Fratel Giovanni approfittando dei pochi momenti liberi, veniva spesso a trovarmi e consolarmi. Faceva tutto per trattarmi con un certo riguardo, come il caso richiedeva, ma con tanta delicatezza che quasi non me ne accorgevo. Questo è stato sempre il suo stile: discrezione, buon senso, delicatezza e bontà d'animo".

Viene ammesso alla prima professione il 12 settembre 1936 con queste note del Maestro dei novizi, don Michele Bacciarini: “ Carattere mite e aperto; ottima osservanza delle regole; pietà soda e fervorosa; vocazione delle più sicure; costituzione debole ma sana; buone attitudini per la cucina”.

Forse proprio per questa ultima nota Fratel Giovanni rimane a Barza d’Ispra in cucina fino al 1950 (16 anni) quando arrivano le suore Figlie di Santa Maria della Provvidenza a dargli il cambio. Un lungo periodo solcato anche dalla guerra che vede Fratel Giovanni industriarsi in tutti i modi possibili ed immaginabili per provvedere il necessario e cucinarlo per sfamare la sua comunità.

Non solo la cucina, però, in questi anni è il luogo del suo apostolato. La frazione di Monteggia, isolata tra i boschi, vicina al complesso Euratom conobbe la sua significativa presenza. Nei mesi di maggio e di ottobre raccoglieva le famiglie davanti alle edicole mariane che lui stesso costruiva per pregare il Santo Rosario e tenere un fervorino. Lo chiamavano il “ curato di Monteggia ” che “ Parlava meglio di un prete” specie nei suoi pensierini sulla Madonna.

E’ tempo di un salto di qualità: dalla cucina di Barza d’Ispra è catapultato nel Palazzo della Cancelleria Apostolica di Roma, con l’incarico di domestico e tuttofare del Cardinal Clemente Micara, vicario del Papa per la Diocesi di Roma e protettore della Congregazione dei Servi della carità.

E’ presentato al Cardinale in un giorno faustissimo 1 novembre 1950, giorno della proclamazione del Dogma dell’Assunta. Mentre assapora già la possibilità di partecipare a questo evento si sente dire dal Cardinale: “ Si trattenga in casa e attenda alla pulizia dell’appartamento”.

Più tardi commenterà lui stesso: “ L’evento si celebrava a pochi passi, ma io ne ero escluso. Non riuscii a trattenere le lacrime. Fu solo un attimo di debolezza da cui mi riebbi prontamente dicendo a me stesso: L’ha voluto la Madonna!”.

Il suo soggiorno a Roma durò solo un anno; qualcosa non era andato per il verso giusto. Fratel Giovanni ritornò felicissimo a Barza e alla sua Monteggia.

Verso la fine del 1954 a chiusura dell’Anno Mariano indetto da Pio XII il Cardinale Micara richiede la presenza di Fratel Giovanni al suo fianco e da questo momento tra i due cresce una intesa meravigliosa. Le testimonianze che possediamo di questo periodo sono molte. Ne cito alcune:

“ Ah, voi guanelliani, come trattate bene il vostro cardinale protettore! Noi tutti avremmo bisogno di avere al nostro fianco un Fratel Giovanni!” (Cardinal Cento).

“Conobbi Fratel Giovanni verso il 1950, presso il Cardinal Micara al quale prestava servizi domestici. Mi colpì fin da principio il suo atteggiamento umile ma dignitoso, e non tardai a rendermi conto che sotto una grande semplicità Fratel Giovanni nascondeva una ricchezza interiore non comune…Un religioso profondamente convinto e lieto della sua scelta, un uomo di fede e di pietà; era umile e paziente, aveva un gran spirito di sacrificio; aveva in particolare il vero spirito di carità di don Guanella, una carità operosa, che non si effonde in parole, ma che paga di persona” (cardinal Ferdinando Antonelli, segretario della Congregazione per la causa dei Santi).

“Ho sempre notato in lui oltre che la profonda convinzione religiosa che traspariva dalle sue parole, anche un grande spirito di preghiera e di unione con Dio” (Cardinal Sergio Guerri).

Il cardinale Micara da parte sua premiò più volte il suo servo fedele. Lo volle con sé in due conclavi come segretario: quello che elesse Papa Giovanni XXIII e quello che elesse Paolo VI che Fratel Giovanni incontrò la sera prima dell’elezione nella Loggia mentre passeggiava tutto solo e visibilmente preoccupato recitando il Rosario: “Buona notte e Sia lodato Gesù Cristo Eminenza”, “Buona notte, Fratello”.

Micara volle la presenza di Fratel Giovanni in diversi viaggi nazionali e internazionali con missioni particolari e il 19 dicembre 1963 lo volle insignire della Croce “ Pro Ecclesia et Pontifice”.

“Padre, sa che in Cancelleria ho visto miracoli compiuti da Fratel Giovanni? Persone, anche in alto tra quanti occupano posti importanti in Cancelleria, laici ed ecclesiastici, che, non sempre esemplari in fatto di condotta morale, interiormente toccati dall’esempio e dalle parole di Fratel Giovanni mutarono stile di vita. Parole che sgorgavano limpide come acqua sorgiva… parole semplici, accompgnate da un luminoso sorriso” (Cardinal Micara al Superiore generale dei SdC)

Fratel Giovanni serve il Cardinale fino alla sua morte; lo assiste con carità indescrivibile sul letto della morte, lo compone nella bara, partecipa alle esequie in san Pietro e poi senza alcuna pretesa di trattamento ritorna a Barza poi a Roma con l’incarico di animatore vocazionale.

Il 15 ottobre 1965 fratel Giovanni insieme al novello sacerdote don Enrico Bongiascia a bordo della Fiat millecento battezzata “Giuseppina” parte per Aguilar de Campoo, Spagna. Un breve intervallo a Lourdes dove don Enrico presiede alla vestizione di Fratel Giovanni (la talare era d’obbligo anche per i Fratelli in terra spagnola). Scrive Fratel Giovanni su una immagine di Maria: “ O Vergine Immacolata di Lourdes, fa’ che questa vestizione abbia a portare un vantaggio spirituale all’anima mia e a quanti avvicinerò”.

Gli inizi di un’opera sono duri. Fratel Giovanni oltre la cucina si improvvisa muratore, ciabattino, ortolano, autista, ma senza mai trascurare la preghiera, fatta spesso nelle prime ore del mattino. Nel suo diario spirituale troviamo la giustificazione di queste “levatacce”: “ Ho bisogno di udire la tua voce, i tuoi richiami, i tuoi insegnamenti, di vedere con i tuoi occhi e di amare con il tuo cuore”.

Suo incarico primario è però quello di girare nei paesi, nelle parrocchie della Vecchia Castiglia per diffondere la conoscenza di don Guanella, dell’Opera e invitare giovani a consacrarsi a Dio. E Dio ha premiato la testimonianza di questo buon servo della Carità. Il primo gruppo di sacerdoti spagnoli che oggi la Congregazione ha sono tutti frutto della sua parola convincente, della sua allegria, della sua vita esemplare.

Alla morte della mamma dopo pochi mesi del suo arrivo in Spagna Fratel Giovanni scrive: “La mamma ha lasciato la terra per il Paradiso…Sì, mamma, l’appuntamento ora è per il Cielo. Siimi sempre vicina ovunque e, in unione con la Mamma di tutte le mamme, fa’ che ogni giorno lo spenda in amore di Dio”.

Un presentimento poco tempo prima dell’incidente: “Nel nome del Signore vado avvicinandomi alla Stazione Termini…Oh, san Giuseppe, fa’ che ci arrivi con la valigia piena di buone opere!”.

Nove ottobre 1971 dopo aver fatto le compere con suor Bettina Bertoli a Valladolid riprende la strada verso Aguilar, alle porte di Osorno viene investito da una macchina di grossa cilindrata che per un sorpasso azzardato aveva invaso la corsia opposta. Lo scontro fu tremendo. Portato all’ospedale, dopo un’ora Fratel Giovanni chiude la sua vita terrena, dopo aver ricevuto l’Unzione sacra.

 

Testimonianza di suo fratello Antonio

“Nella nostra famiglia, di 13 figli, dopo la fede, il lavoro, i valori della vita, hanno avuto una parte importante anche gli incidenti: il 9 ottobre 1971 è morto Giovanni in Spagna, il 21 della stesso mese un altro sinistro ci ha portato via Danilo, di un anno più vecchio di me, ed ha coinvolto e segnato nel fisico Cirillo; nel 1975 un incidente sul lavoro ha stroncato Pietro. Con l'aiuto del Signore e la saggezza dei tanti anni vissuti conservo nel cuore un grande affetto per tutti i miei fratelli, i figli di mamma Clementina e quelli di mamma Carmela, di cui sono l'ultimo nato, classe 1927, e l'unico superstite: ma fra tutti il più vicino al mio cuore è senz'altro Giovanni, che, essendo nato nel 1913, era la nostra guida: lo rivedo che ci insegnava Ie preghiere del mattino e della sera e concludeva sempre con un pensiero, un ringraziamento alla ‘Mamma celeste’. Il suo esempio di vita era così forte, la sua testimonianza era così fervida e convinta che portò fra i seguaci di don Guanella anche nostro fratello Pietro ed il cugino don Danilo. Pronto al dovere, si sacrificava sempre, soffriva in silenzio, offriva al Signore le sue umiliazioni e le sue sconfitte umane con serenità e grande fede. Mentre era studente a Barza d'Ispra, durante una vacanza a fine maggio, ad esempio, partecipò al pellegrinaggio parrocchiale alla Madonna della Comuna, allora organizzato dal Curato don Secondo Zorzella, a piedi scalzi, perché anche quello era un modo per fare penitenza, ma con grande naturalezza e serenità, col sorriso sulle labbra. Era attento e vicino ai giovani: in tasca aveva sempre delle caramelle che offriva ai bambini; sapeva fare semplici giochetti di prestigio per divertire e attirare l'attenzione; per i giovani si sacrificava senza calcoli: in cucina a Barza, incurante del caldo e del sudore, si prese una broncopolmonite; in Spagna, girando fra Ie famiglie di umili contrade scherzava in allegria e condivideva la povera mensa, dove capitava. Accanto alla preghiera la carità era l'altro pilastro della sua vita e del suo apostolato: per la provincia di Vercelli girava per la questua di riso per la sua "famiglia", i poveri di don Guanella e a Roma raccoglieva vestiti ed offerte in danaro che finivano sempre in carità silenziosa ma efficace. Chiedeva con semplicità bonaria e senza vergogna perché non lo faceva per sé, ma per i suoi poveri e per il Signore, ed otteneva malto perché sapeva parlare alle coscienze ed ai cuori. Durante la guerra, ad un posto di blocco in provincia di Vercelli, rischia di vedersi sequestrare il carico di riso che aveva messo insieme con tanta fatica. Quattro ragazzi della pattuglia per fortuna lo conoscevano e sapevano a chi serviva quel riso e lo dissero ai loro graduati: ma Giovanni volle condividere un po' di quella carità e offrì loro un sacchetto pieno di riso. Sempre durante la guerra un altro spavento lo provò a Roncanova, a qualche chilometro da casa, quando i Carabinieri locali ci fermarono per alcune ore credendoci partigiani: tutto si risolse in fretta, grazie all'intervento del nostro parroco don Antonio Romagnoli e del comandante della Stazione dei CC di Sanguinetto, ma di certo non fu estraneo I'aiuto della Madonna che pregammo insieme durante il fermo. Nel 1958 mi sposai e feci il viaggio di nozze a Roma e così ebbi modo di assistere all'incoronazione di Papa Giovanni XXIII e conoscere un po' qualche personalità del Vaticano: il Cardinale Mìcara, il Cardinale Piazza, il Comandante delle Guardie Svizzere, di cui non ricordo più il nome, suor Pascalina, assistente e collaboratrice di Pio XII. Nonostante si muovesse in quest'ambiente Giovanni rimase sempre semplice e umile: trattava tutti con grande rispetto e devozione e si sentiva solo un servitore. A proposito, il Cardinale Mìcara, che per nascita, età e formazione era veramente un principe della Chiesa e amava circondarsi di persone molto istruite (l'autista e la cuoca erano laureati in lettere) dopo un periodo di prova non apprezza iI servizio di Giovanni, troppo dimesso, e lo rimandò a Barza. Dopo un mese o poco più, con insistenti telefonate al superiore generale dei guanelliani lo fece tornare al suo servizio e Giovanni, come sempre obbediente ai superiori e ai disegni del Signore, torna a Roma a servire il cardinale con spirito francescano, per lunghi anni, fino alla morte del cardinale. Di tanto in tanto il cardinale gli concedeva qualche vacanza perché venisse a trovare I'anziana mamma Carmela, ma spesso telefonava per richiamarlo d'urgenza perché non riusciva a star senza Giovanni. Giovanni infatti comunicava delicatezza e calore, possedeva una fede convinta, parlava con fermezza, umiltà e grande rispetto: con naturalezza era esempio vivo di amore cristiano”.  (Antonio Vaccari)

 

DON BRUNO BELFI è nato a Vodo Cadore il 13.06.1920 da Arcangelo e da Caterina Marchioni. Il 27.06.1920 i suoi genitori lo portano al Fonte battesimale perché diventi figlio di Dio e s’inserisca a pieno titolo nella Santa Madre Chiesa. La vita del piccolo Bruno cresce e si sviluppa come quella di ogni altro bambino; non conosciamo episodi particolari che caratterizzano la sua infanzia e della sua famiglia abbiamo solo quella nota che troviamo in una lettera di don Giovanni Calvi, superiore di Velai di Feltre, che lo definisci “poverissimo” sino al punto da non essere nemmeno accettato in seminario.

Bruno conferma con risolutezza e convinzione la sua fede nel sacramento della Cresima conferitogli da Mons. G.Cattarossi a Vinigo di Cadore il 26.03.1927. A 13 anni, il 22 settembre del 1933,  entra nella nostra Congregazione, Servi della Carità, nella casa di Fara Novarese, come aspirante. Viene accolto dal Superiore locale e Padre Maestro, don Michele Bacciarini, su presentazione di don Giovanni Calvi: “Le unisco domanda di ammissione alla prima ginnasio di un poverissimo ragazzo che mi viene raccomandato ripetutamente dal parroco e dal viciniore e lo presentano come un ragazzo veramente scelto. Non fu ricevuto dai salesiani di Belluno perché poverissimo; né dal Seminario perché ha un cugino prete…..Vuole prenderlo Lei? Ne avrei piacere perché questi paesi potrebbero dare altre vocazioni, anche laiche. Diversamente sarei costretto, se lei credesse, provarlo io, ma sarebbe un anno perduto. Se lo ammette, me lo significhi tosto con cartolina, numerandomi gli attestati necessari. Già ne tengo alcuni” (Velai di Feltre, 6 settembre 1933).

Frequenta con profitto le scuole del ginnasio, compie l’anno del postulandato nell’anno sociale 1938/1939 e l’anno canonico di noviziato nel 1939/1940. Il 12 settembre del 1940 può emettere nella nostra casa di Barza d’Ispra (VA) la sua prima professione religiosa come Servo della Carità.

Torna come educatore dei ragazzi nell’ Istituto di Velai di Feltre per i tre anni successivi  e si consacra definitivamente a Dio con la professione perpetua nella Casa di Gatteo il 12.09.1944. Nella Cappella della stessa casa è Ordinato sacerdote da Mons. C. Stoppa il 15.06.1946.

Inizia la sua missione di sacerdote come insegnate a Roma Trionfale e come addetto al ministero a Valle Aurelia dal 1946 al 1948. E’ poi inviato come I° Consigliere a Naro (AG) dal 1948 al 1951, dove l’Opera è presente con un Istituto di ragazzi e un piccolo seminario per gli aspiranti. Ritorna di nuovo a Valle Aurelia dal 1951 al 1955 come Vice Parroco. Dal 1955 al 1958 è secondo consigliere nella comunità di Ferentino (FR). Dal 1958 al 1964 è mandato nella comunità di Albizzate (VA) come consigliere del Superiore locale. Ultima tappa del suo pellegrinaggio terreno è stata la Basilica di San Giuseppe al Trionfale. Vi arriva nell’autunno del 1964, in concomitanza della solenne Beatificazione in San Pietro del nostro Beato Fondatore e vi opera nel ministero della riconciliazione e nel servizio a domicilio degli ammalati fino al 21 settembre 2000, due giorni prima della sua morte: 36 anni ininterrotti. All’alba del 23 settembre, senza dare “impiccio” a nessuno, come soleva dire lui, ha lasciato questa terra per il cielo.


 

L'eredità spirituale di don Bruno Belfi

Un prete devoto. Ha dato rilievo di tempo e di attenzione alla preghiera e alla coltivazione delle sue devozioni:

  • “alla Santissima Trinità: al Padre dei cieli per la sua infinita misericordia, al Figlio che volle svelare, nell’Incarnazione, la misericordia del Padre, allo Spirito Santo che è dono meraviglioso del Padre e del Figlio per ogni creatura che si presenta sulla sponda terrestre;
  • alla Vergine Immacolata: per la sua materna protezione;
  • all’Angelo custode: solerte suggeritore di bene sulle strade dell’esilio;
  • ai cari defunti: che non cessano mai di incoraggiare per le vie del bene” (Inno di grazie di don Bruno nel suo 80° compleanno)

Un prete fedele ed appassionato al suo ministero. Il mediatore che si da tutto per raggiungere tutti. Due i suoi impegni quotidiani:

  • la confessione: Registrava ogni programma di Radio Maria su cassette divise per temi: catechesi, spiritualità, sacramentaria, devozioni, problemi attuali, conferenze tematiche ecc. Durante gli incontri in confessionale dove non arrivava a rispondere agli interrogativi dei penitenti, saliva in camera prendeva la cassetta corrispondente al problema affrontato, la consegnava al penitente per l’ascoltasse e riflettesse personalmente e poi, eventualmente, se voleva ancora dialogare ancora con lui. Quanti giovani ha formato con questo metodo.
  • La visita agli ammalati. Ogni mese visitava circa 100 ammalati ai quali portava il dono della riconciliazione, quello della Eucaristia e a diversi anche la sua Omelia della domenica precedente che puntualmente registrava mettendo un piccolo registratore sull’ambone dove predicava.

 

Il cammino di santità di don Bruno Belfi

Don Bruno Belfi = un gigante buono

Gigante: perchéalto di statura, silenzioso, misterioso, burbero di carattere, dallo sguardo severo e poco confidenziale.

Buono:perché prete fedele, appassionato, creativo nell’offrire i frutti del suo sacerdozio ai fedele, soprattutto dal confessionale e dalla visita nelle case degli ammalati.

Nel suo Testamento spirituale don Bruno afferma che quello che è stato e ha fatto nella sua vita non deve apparire: “Non ci siano discorsi, che non aggiungerebbero nulla al lavoro svolto in tanti anni di silenzio. Di quanto resta di ciò che fu del cosiddetto mio, un bel falò, omaggio al roveto ardente che ha illuminato il mio cammino”. 

Il Vicario generale dell’Opera nell’Omelia funebre si è rivolto ai presenti che gremivano la Basilica di San Giuseppe al Trionfale: “Chiedo a voi giovani, famiglie, fratelli e sorelle qui presenti in questa Basilica, ma lo vorrei chiedere anche ai più di 100 malati che ogni mese don Bruno visitava per la confessione e la comunione mensile: chi avete incontrato quando vi siete accostati all’ultimo confessionale di questa Chiesa, in questi giorni pieno di fiori freschi e profumati? Cosa vi ha saputo trasmettere quel grande uomo che passava ore e ore seduto dentro quel confessionale? Chi aspettavate cari ammalati ogni mese nelle vostre case? Un uomo di grande dialettica, di evidenti capacità critiche, un uomo di ampia e poliedrica cultura? Sentite come lui stesso si descrive nel suo testamento spirituale. Sentite ciò che si augurava di sapervi trasmettere incontrandovi: “Povere parole, scolpite nel mio cuore solidamente come solide sono le mie montagne; contestate forse da molti, contestazioni che però non scalfiscono minimamente questo operaio di Cristo”… E si firma: “Di mio pugno: Bruno, nonché Wolfango (senza contestare l’anagrafe) Belfi, sacerdote di Cristo, di pochissimi talenti, ma tutti sfruttati con la grazia di Dio”.  Lo aveva composto il 13 giugno del 1995 nel 75° anniversario della sua nascita”.

Don Bruno appariva all’esterno come un uomo, un sacerdote, apparentemente povero, solitario, severo, chi aveva invece la grazia di conoscerlo, di entrare in sintonia con lui, lo scopriva ricco dentro perché uomo affidato a Dio; abbandonato a Dio da tutta la vita perché Lui ne facesse un canale di grazia e di misericordia che arrivasse là dove solo Lui conosceva il bisogno, l’attesa. Un uomo costruito dentro in maniera solida da una Parola, quella del Signore, che fa vivere e resistere anche contro le più forti e accalappianti tentazioni. Un uomo che ci teneva al come Dio lo vedeva e giudicava, perché era consapevole che ciò che conta nella vita di un cristiano e di un consacrato è quello che Dio pensa di te…gli altri possono farsi anche una idea sbagliata sul tuo conto, non però Dio!  Don Bruno: un uomo che ha lasciato fare a Dio nella sua vita e della sua vita.

Nel suo testamento spirituale don Bruno descrive così la sua sofferenza di tanti anni: “L’esperienza sofferta di tanti anni può avere insegnato che non è il giudizio definitivo quello degli uomini, che vivono sulla stessa strada e assaggiano gli stessi frutti, ma il fidarsi di Cristo, della sua misericordia, della sua grazia, accettando umilmente la sofferenza in tutti i suoi aspetti e forme, avvalorando con la preghiera l’offerta del silenzio. Infatti non sempre la parola ha la sua efficacia di chiarificazione: qualche volta confonde, altra disperde, altra ancora distrugge, pur ammettendo la diversità dei fini nei soggetti, già così complessi, sul piano esistenziale. La preghiera umile ricompone, a lunga gittata, le varie parti, i differenti orizzonti, concedendo la letizia del cuore, pur restando in adorazione ai piedi della croce, accanto al Crocifisso Signore, perché c’è sicurezza dell’alba di Pasqua” (Aggiunta al testo delle ultime volontà del 13.06.1995. Roma 13.06.1996).

 

Sempre dal suo Testamento spirituale cogliamo il canto del suo “magnificat” a Dio e agli uomini per il bene ricevuto lungo l’arco della sua esistenza:

“GRAZIE alla misericordia divina per tale e grande chiamata, delle infinite elargizioni in tutti i giorni di tale missione.

GRAZIE alla materna protezione della Vergine Madre, per aver custodito il cuore da tanti pericoli.

GRAZIE all’Angelo Custode, solerte e indefesso protettore dei miei passi, per la sua continua, preziosa e amorevole custodia.

GRAZIE per l’intercessione amorosa e vigilante dei miei cari defunti, sempre sui miei passi, presenti specialmente nell’ora del dolore .

GRAZIE alle mie guide spirituali che, nel silenzio, mi hanno sostenuto, guidato per le vie del Signore, perché fossi operaio solerte e generoso, anche se dotato di pochissimi talenti, dentro e fuori l’amata Congregazione.

GRAZIE alle anime prescelte da Cristo per la sua sequela, che hanno saputo ascoltare, umilmente e docilmente i suggerimenti di un povero viandante.

GRAZIE per la preghiera di tanti buoni fratelli e sorelle che nel nascondimento, senza nessuna prosopopea, hanno ricaricato lo spirito di sempre nuove energie, anche quando le malelingue cercavano di offuscare l’orizzonte, sempre sincero, addebitando errori e valutazioni arbitrarie.

GRAZIE a tutti, conosciuti e non conosciuti (che conoscerò alla venuta del Regno della salvezza), che hanno voluto addebitarsi ombre e tempeste, vere o presunte, per togliere gli ostacoli nel duro pellegrinaggio terrestre; perché il traguardo ultimo fosse sempre presente alla mente e al cuore.

GRAZIE dal profondo di me stesso a coloro che, con disponibilità evangelica, hanno speso tempo e denaro per trovare due metri di terra per il mio temporaneo riposo in attesa della tromba angelica della risurrezione.

GRAZIE anche a coloro che saranno sinceri, almeno davanti alla morte e non pronunzieranno elogi, che sanno di convenienza umana, ma sono “bugiardi”. Li ricorderò uno per uno al misericordioso Signore”.

Il suo Testamento spirituale si chiude con una preghiera ed una acclamazione:

“Una lacrima per i defunti evapora;

un fiore sulla tomba appassisce;

una preghiera, invece, arriva fino al cuore dell’Altissimo” (Sant’Agostino).

E’ RISORTO, ALLELUIA! (Aggiunta al testamento spirituale, 13.06.1996).

 

DON PIETRO OSMETTI nasce a Grosotto, in provincia  di Sondrio il 15 settembre 1866 da Orsola Noli e Cristoforo Osmetti. La fede dei pii genitori si fece premura di assicurargli la grazia della rigenerazione alla vita celeste, recandolo tre giorni dopo al sacro Fonte battesimale. Iddio prendeva possesso di quell’anima per non abbandonarla mai più. A Grosotto le mamme nulla avevano di più caro che porre sotto la protezione della Madonna delle Grazie ogni loro  pargoletto: la buona Orsola non poté certo mancare  a quello che era ritenuto un sacro dovere.

La famiglia di Pietro è molto povera: il pane scarseggia sempre più e Cristoforo prende una risoluzione che tante lacrime sarebbe costata. Presa una somma di denaro a prestito, nel 1869 parte per l' America con tante speranze nel suo sacco da viaggio. Ma per lui, come per tantissime altre persone, l’America non fu la “terra promessa” sperata. Due anni dopo la sua partenza faceva sapere che ancora non poteva mandar nulla…poi non si ebbero più notizie.

Intanto nella casa di Grosotto la povertà toccava i limiti della miseria. In quegli anni, ricorderà in seguito Pietro,  la  povera mamma doveva lavorare alacremente per mantenersi con i tre piccoli, ma la Provvidenza di Dio però non mancava mai di soccorrerli in modi diversi. Pietro cresceva negli stenti, avvezzandosi fin da quei teneri anni allo spirito di sacrificio e di fiducia nella Provvidenza Divina. 

All’età di 6 anni incominciò a frequentare la scuola. Ma a quei tempi nelle case dei contadini i ragazzi alternavano lo studio con il lavoro dei campi e della pastorizia in aiuto ai familiari. Così fu per Pietro.

Ricevette la S.Cresima il 12 settembre 1873, all’età di 7 anni e qualche anno più tardi fu ammesso alla Prima Santa Comunione.

Terminate le scuole poi si dedicò totalmente  al lavoro agricolo sui campi suoi e, a giornata, sui campi degli altri. Un buon sostegno alle magre entrate di mamma Orsola.

L’adolescenza di Pietro trascorre come quella di tutti i giovani del paesetto: lavoro e qualche svago, svaghi e divertimenti semplici e ingenui, forse con qualche bravata caratteristica dell’età, ma che nell’animo delicato del nostro Pietro lasciarono un senso di colpa, di cui più volte si pentirà, ritenendosi un grande peccatore, bisognoso di conversione. Le testimonianze dei compagni e delle compagne invece sono concordi nel dichiarare l’ esemplarità di Pietro, “…un ottimo giovane  di giudizio e di virtù …se tutti fossero come lui il mondo sarebbe un Paradiso…” Eppure Pietro ricorderà sempre come una grande grazie il momento della sua “conversione”, “l’ora della grazia” come soleva chiamarla. Ricordava che un anno per la foga nel lavoro cadde ammalato e dovette lasciare il lavoro dei campi per il letto…”in quel tempo di sosta e di convalescenza rientrai in me stesso e la grazia di Dio si fece strada in me e conobbi meglio lo scopo della vita  che è quello di conoscere, amare e servire Dio, datore di ogni bene  e di ogni felicità. E perciò mi rivolsi a Lui, temendolo e pregandolo e adorandolo più del tempo passato. Divenne più assiduo alle funzioni, alle opere di bene; lunghe e intense ore di preghiera nella ricerca della sua strada.


 

Cammino di santità di fratel Pietro Osmetti

Con Don Guanella

Pietro sentiva forte la chiamata del Signore, ma non sapeva  cosa esattamente doveva fare.  Pensava alla vita religiosa, ma dove e con chi? La Provvidenza volle che nella medesima ricerca si trovasse un suo carissimo amico, un tal Giuseppe Trinca. Ora la sorella del Trinca, di nome Orsola, come la mamma di Pietro, dopo aver allevato il fratello in sostituzione della madre morta prematuramente, sentiva forte la vocazione a farsi religiosa per dedicarsi totalmente a Dio.

Avendone parlato con il parroco, questi la indirizzò nel 1893 a Como da don Guanella, ormai conosciuto in Diocesi come l’Apostolo della carità e che aveva dato inizio, anche se non ancora in modo formale, a due Congregazioni: una per le ragazze e una per i giovani. Orsola fu accettata.  Ma ad accompagnare la sorella da don Guanella ci andò anche Giuseppe e con lui il nostro Pietro e un altro giovane.  Don Guanella li accettò tutti e così la mattina del 10 dicembre,  Festa della S.Casa di Loreto, Pietro e i due compagni lasciano definitivamente Grosotto per servire Gesù nella persona dei poveri con don Luigi Guanella.

Ai tempi dell’Osmetti la Casa don Guanella era un’ arca di Noé che apriva le sue porte ad ogni sorta di naufraghi. L’occhio “clinico” di don Guanella individuò immediatamente il posto adatto a Pietro: tra i vecchietti infermi a curarne le ferite del corpo e dello spirito. 

Emette la sua prima professione il 17 marzo 1898 e la perpetua  il 5 aprile 1908, pochi giorni dopo la prima professione perpetua nella storia della Congregazione, emessa da don Guanella con i suoi primi confratelli il 24 marzo 1908.

 

L' infermiere dei poveri

E così il giovane contadino, cresciuto all’aria libera dei campi, diviene prima un buon cameriere dei poverelli e poi valido e solerte infermiere. Chi ha vissuto con lui testimonia che aveva per tutti una buona parola, con grande pazienza e carità, sempre col sorriso sulle labbra, premuroso nel servizio e disponibile verso tutti.  Notte e giorno è fra di loro. Non mancano, come sempre avviene, ingratitudini e anche ingiurie, ma lui non sembra accorgersi, anzi ricambia con nuove e più squisite attenzioni e prove d’amore.

In questo lavoro, o meglio missione, che dura sino alla morte, compie il suo cammino verso la meta della santità. La forza è attinta dalla preghiera prevalentemente eucaristica, come don Guanella invitava a fare. Pregava, dice egli stesso, come un figlio prega suo padre. Anche durante il lavoro non smetteva mai di rivolgersi con la mente e con le giaculatorie al Padre di ogni bene, Provvidenza per lui e per i suoi poveri vecchietti. 

Né con minor fervore si rivolgeva alla Beata Vergine alla quale si sentiva debitore della sua “conversione” e la Madre celeste rispondeva con sempre più abbondanti e nuovi favori.

L’amore per Dio e per la Vergine, diventa zelo di carità e di apostolato lungo tutta la sua vita. Pietro zelava l’onore del Signore nelle anime dei suoi vecchi e infermi, mentre ne curava i corpi e ne medicava le ferite con delicatezza materna. Passava ore e ore  in infermeria ad assistere i suoi ammalati.

In omnibus charitas  insegnava don Guanella e Pietro seguì sino alla perfezione questo invito del Fondatore. Fu sempre tutto per gli altri. Soleva ripetere .” Non siam qui per noi, ma siam qui per questi poveretti!...” e questo sino alla fine dei suoi giorni.

 

Il tramonto

Superati i 70, gli acciacchi si aggravarono piuttosto rapidamente sino a costringerlo a letto lungo tutto l’inverno del 1940-41. Il letto divenne vero altare di pietà e d’immolazione; vera cattedra d’insegnamento con l’esempio  e con la parola semplice e sublime. 

Viveva e si spegneva per la Congregazione. Eppure, anche in quei momenti di grave malattia, non cessava di pensare agli altri. 

Infermo non cessava di essere infermiere, tanto da portare spesso soccorso al vicino di camera che non stava certo peggio di lui…

La malattia ebbe alterne vicende, come spesso capita in questi casi, ci fu anche una piccola ripresa e Pietro riprese il suo posto di lavoro, ma durò poco…si rimise a letto per non alzarsi più. 

Il 27 dicembre 1943, intorno alle ore 23 la sua anima bella e santa si univa al Fondatore e ai diversi confratelli che già l’avevano preceduto in Paradiso.